Questa è la Tregua? (un discorso)

[E questo è all’incirca il discorso che ho fatto domenica sera durante la serata finale dell’AiaFolkFestival 2023 nel Parco della Resistenza di Novi di Modena. Dopo di me hanno suonato Eugenio Finardi, Mirko Signorile e Raffaele Casarano, e mentre scendevo dal palco, per la scaletta che portava dietro le quinte, e loro salivano, mi han fatto i complimenti. A momenti cadevo giù. Buona lettura.]

Buonasera,
Si sente se parlo così?
Bene.

Allora, ciao, io mi chiamo Marco Manicardi, e sono un novese. O meglio: lo sono stato per i primi 26 anni della mia vita, dopo sono andato ad abitare a Carpi per questioni d’amore. Abito lì da 18 anni e sono 18 anni che la mia compagna mi dice che secondo lei mi ha tolto il selvatico. Chissà se ha ragione.

Ma comunque, alcuni di voi mi conoscono perché siamo cresciuti insieme, altri perché sono il figlio di Jules e della Francesca o perché sono il nipote di Corrado e dell’Ada; altri ancora, forse, mi conoscono perché ormai mi capita da un po’ di anni di dire delle cose all’AiaFolkFestival di Novi di Modena. Di solito funziona così: sul finire della primavera, verso l’ora di pranzo di un giorno lavorativo, quando le difese sono un po’ basse e sto magari preparando da mangiare per mio figlio che torna a casa da scuola, suona il telefono. Prima era la Giulia Contri, a telefonare, adesso è Diego Zanotti. Mi chiamano e mi chiedono, senza giri di parole, se mi va di dire qualcosa in una serata come questa dell’AiaFolkFestival, e io, tutte le volte, vorrei dire che non lo so, che grazie ma non saprei cosa inventarmi, che non sono un professionista e che, insomma, mi dispiace ma quest’anno proprio non ci riesco…
E invece poi, alla fine, dico di sì.
Si fa un po’ fatica a dire di no quando ti chiamano in rappresentanza del Coro delle Mondine di Novi di Modena, o almeno io faccio fatica. Devo avere ancora addosso un po’ di selvatico.
E quindi, niente, eccomi qua anche stasera. All’AiaFolkFestival 2023.
Mi han fregato un’altra volta.

E questa volta forse mi han fregato davvero, quando mi hanno detto, cioè quando al telefono Diego Zanotti mi ha detto: «Quest’anno l’argomento del festival è “la Pace”» dove si sentiva che Pace aveva la lettera maiuscola, e poi mi ha ringraziato, mi ha salutato e ha messo giù.
E io sono rimasto lì impalato col telefono in mano. Pensavo –  ma lo penso ancora – che io davvero sulla Pace, con la lettera maiuscola, ma anche sulla pace con la lettera minuscola, non so cosa dire. Anzi mi scuso in anticipo se va a finire che starete qui per quasi mezz’ora a sentire delle cose banali. Ma ormai è fatta. Dopo comunque c’è Eugenio Finardi, quindi la serata è salva.

E insomma, mi avevano chiesto anche un titolo per questo intervento e proprio non ce l’ho fatta a trovarne uno, quindi sul programma hanno scritto “Reading sulla Pace, a cura di Marco Manicardi” (Reading e Pace con la lettera maiuscola; anche Marco e Manicardi hanno la lettera maiuscola, ma questo è più normale). Il titolo poi mi è venuto dopo.

Subito volevo chiamare questo discorso “Questa è la Pace”, una specie di rilettura di un discorso che David Foster Wallace, uno scrittore contemporaneo molto bravo e molto importante, almeno per la mia generazione, morto una quindicina d’anni fa, fece per la cerimonia di consegna delle lauree al Kenyon college, il 21 maggio 2005; è un discorso molto citato in giro, forse anche troppo, magari qualcuno ne ha già sentito parlare, si intitolava “Questa è l’acqua” e cominciava così:

Ci sono due giovani pesci che nuotano uno vicino all’altro e incontrano un pesce più anziano che, nuotando in direzione opposta, fa loro un cenno di saluto e poi dice «Buongiorno ragazzi. Com’è l’acqua?» I due giovani pesci continuano a nuotare per un po’, e poi uno dei due guarda l’altro e gli chiede «ma cosa diavolo è l’acqua?»
È una caratteristica comune ai discorsi nelle cerimonie di consegna dei diplomi negli Stati Uniti di presentare delle storielle in forma di piccoli apologhi istruttivi. Questa storia è forse una delle migliori, tra le meno stupidamente convenzionali nel genere, ma se vi state preoccupando che io pensi di presentarmi qui come il vecchio pesce saggio, spiegando cosa sia l’acqua a voi giovani pesci, beh, vi prego, non fatelo. Non sono il vecchio pesce saggio. Il succo della storia dei pesci è solamente che spesso le realtà più ovvie e importanti sono quelle più difficili da vedere e di cui parlare.

Ecco, questo era l’inizio del discorso di David Foster Wallace intitolato “Questa è l’acqua”. Q quindi ci sono questi due giovani pesci, che incontrano un pesce anziano che gli dice «Buongiorno ragazzi. Com’è l’acqua oggi?» e loro si chiedono «Cos’è l’acqua?» perché nuotandoci dentro da tutta la vita non si sono mai chiesti che cosa fosse, l’acqua, la davano per scontata. Anche se è importantissima per la loro sopravvivenza, l’acqua è così ovvia, per loro, che è difficile vederla e parlarne. E il succo è che (sto semplificando molto, ma davvero molto molto) dobbiamo sforzarci continuamente di pensare per riuscire a vedere il mondo in cui viviamo. (Pensare e vedere li ho scritti in corsivo, qui su questi fogli, non so se si è sentito nell’intonazione, ma insomma, avete capito.)

Beh, allora ho detto: wow, dai, siamo a posto, uso questa storia anch’io per spiegare alla gente come ormai non ci accorgiamo più di cosa sia la Pace, pur vivendoci dentro tutti i giorni, soprattutto adesso che quelli che hanno vissuto davvero la Guerra (“al tèimp ed guèra”, come lo chiamava mio nonno Corrado, il tempo della guerra) sono tutti praticamente morti; adesso, pensavo, metto giù un discorso su come siamo dei pesci che nuotano nella Pace, che è importantissima per la nostra sopravvivenza, e non ce ne accorgiamo perché diamo la Pace per scontata, eccetera. Vado avanti così e faccio bella figura anche quest’anno, all’AiaFolkFestival di Novi di Modena, ho pensato. Tutto a posto, dai.

Eh. Magari.
Non ci sono riuscito.

Il mio pesce anziano, quello che quando mi incrociava mi chiedeva «com’è l’acqua oggi?» era mio nonno, mio nonno Corrado, che in tempo di Pace mi raccontava sempre di quello che chiamava “al tèimp ed guèra”, il tempo in cui c’era la guerra. E ci ho fatto caso mentre scrivevo questa cosa qui, che non mi avrebbe mai potuto chiedere «com’è la Pace oggi?», perché secondo me la parola “Pace”, in dialetto, o almeno nel dialetto di mio nonno Corrado, o non esiste o non gliel’ho mai sentita dire.
Diceva sempre “al tèimp ed guèra” per parlare di quando c’era la guerra; e “dòpp la guèra”, dopo la guerra, o semplicemente “adèes”, adesso, quando parlava di avvenimenti accaduti in tempo di Pace.

Allora forse non è la Pace quella in cui nuotiamo noi pesci oggi, noi viventi. Forse è un’altra cosa.
Si potrebbe pensare che il contrario della Pace sia la Guerra, non saprei. Di guerre ce ne sono sempre, da qualche parte, magari lontane, magari vicine, o addirittura vicinissime, come sta succedendo adesso, e una Pace assoluta non l’ha mai vista nessuno.
Però non c’era forse nemmeno mai stato un periodo così lungo in cui non ci prendessimo a randellate o a schioppettate tra noi europei, come quello in cui viviamo adesso. Un periodo lungo quasi 80 anni. Sono talmente tanti che forse per la prima volta c’è stata un’intera generazione, quella dei miei genitori, che è nata in tempo di Pace e se tutto va bene in tempo di Pace può morire. E qualcuno è anche già morto.
Loro sì, che hanno nuotato nella Pace.
Noi? Io ho 44 anni. Spero di vivere e un nuotare ancora un altro po’.
E se non dovessimo morire in tempo di Pace, che è una cosa che non dovremmo dare per scontata, allora forse quella in cui nuotiamo potrebbe avere un altro nome. Per esempio potrebbe essere una tregua.
Ecco. Forse stiamo nuotando nella tregua?

Secondo il vocabolario TRECCANI:

trégua (o trègua, ant. triègua) s. f. [dal lat. mediev. treuga, di origine germanica]. – 1. Sospensione temporanea delle ostilità stabilita da due belligeranti ed estesa a tutto il teatro di guerra o a un solo settore, stipulata per raccogliere feriti, seppellire morti, prendere misure igieniche, chiedere ordini e istruzioni per agevolare trattative, ecc.[…] Con sign. più generico, sospensione temporanea delle azioni belliche, anche non conseguente a un patto […] 2. estens. Sospensione di qualsiasi ostilità, cessazione temporanea da una lotta, da rivendicazioni […]

Allora ho pensato: intitolo questo discorso “Questa è la Tregua”.
Questa è la Tregua. Forse con la T maiuscola. Quella che c’è tra una guerra e l’altra.

E quindi, a questo punto, mi sono dovuto domandare: cos’è la guerra? Che cos’è per me, per noi, che non l’abbiamo mai vista vivendo in tempo di Tregua?

Ho trovato una poesia di Nino Pedretti, un poeta romagnolo di Santarcangelo di Romagna, nato nel 1923 e morto nel 1981, uno che era della generazione di mio nonno, uno che ha vissuto “al tèimp ed guèra”, e che scriveva poesie in dialetto romagnolo, ma per fortuna le pubblicava con la sua traduzione sotto. Questa si chiama La guèra, la guerra, e fa così:

Il paese era minuscolo
raggrinzito
come un bambino in fasce;
tremava tutto
si sgretolava,
e mandava una polvere di mattoni
un fumo di morte.
A ogni colpo di cannone
si spegneva una candela
nelle stanze.
I tedeschi come lupi
inseguivano la gente
e Arrigo col carretto
i capelli bianchi di paura
urlava nella fuga
«M’ammazzano».
La guerra non è la morte
nel tuo letto, è la benzina
che brucia le gambe
ai ragazzini
è un foro nella pancia
che ti fa mangiare la terra
come il gatto prima della morte.
La guerra è il cuore che si fa acqua fradicia
perché hai fatto dei nomi alla Ghestapo.
La guerra è quel morto
di cui porti la maglia
sono i capelli che piovono pidocchi
il sangue che cachi
nei colpi della tosse.
La guerra è quel mal di denti
che ti batte nel cervello
il freddo sotto la pelle.
La guerra sono gli alberi
così belli,
il cielo che è così grande
il fiume che va come una vela.
E tu, accecato e storpio
che devi morire.

Ecco, scusate ma ho un po’ di magone…

Questa quindi era la guerra.
E adesso, mi è venuta in mente un’altra cosa, e questa cosa è alla fine di un racconto che mi faceva sempre mio nonno Corrado, e che ho letto in giro per almeno dieci anni da quando l’ho scritto la prima volta, e lo leggo anche adesso, scusandomi con chi l’avesse già sentito.
Si intitola “Ci vuole del coraggio”.

Mio nonno, Corrado, eran già dei mesi che stava in prigione, ma ultimamente se la passava meglio. Meglio di qualche mese prima, quando c’era quell’aguzzino fascista a comandare la galera, un tipo sadico e cattivo che ammazzava i prigionieri a suon di botte, uno al giorno, tutti i giorni.

Mio nonno, Corrado, quando è arrivato in prigione, l’han chiamato subito nel piazzale insieme con tutti gli altri carcerati. Li hanno messi in fila, e uno sì e uno no venivano marchiati con una spennellata di vernice nera sul petto. Poi il capo fascista ha detto Quelli senza spennellata facciano un passo avanti. Ma mio nonno, che la spennellata ce l’aveva, è rimasto fermo lì dov’era. Quelli senza spennellata, invece, li han messi contro a un muro e li hanno fucilati, così, al volo, per dimezzare i letti occupati in galera in un colpo solo. Con voialtri, aveva detto poi il fascista, con voialtri cominciamo da domani, uno alla volta. E così han fatto, dal giorno dopo. Ogni giorno ne moriva uno di botte. Mio nonno racconta che ha visto i suoi due compagni di cella morire, prima uno poi l’altro, massacrati dalla testa ai piedi, e il terzo giorno toccava a lui.

Il terzo giorno, la mattina presto, nella cella di Corrado, mio nonno, che aveva diciotto o diciannove anni, è arrivato il prete e gli ha dato l’estrema unzione. Poi sono arrivati tre fascisti e han cominciato a picchiarlo. Pim pum pam, in faccia, pim pum pam, nelle gambe, pim pum pam, nella pancia, pim pum pam, sulle braccia, pim pum pam, calci nei reni, pim pum pam, pim pum pam. Mio nonno dice che era lì che si lasciava picchiare, e a un certo punto non sentiva più niente, sperava solo di morire alla svelta.
E invece.

E invece non è mica morto, perché proprio in quel momento lì, mentre lo stavano ammazzando, pensa che culo, sono arrivati i partigiani ad attaccare la prigione e i fascisti son corsi fuori coi fucili spianati lasciando mio nonno sanguinante e svenuto sul pavimento.

Tre giorni dopo, quando si è svegliato, era in ospedale. L’attacco dei partigiani era stato respinto, ma qualcosa doveva essere successo, perché adesso, così gli dicevano, adesso il capo fascista era un altro, uno che, dicevano, ma lo dicevano sottovoce, era amico dei partigiani e trattava bene i prigionieri, anche se era comunque un fascista. Mio nonno, Corrado, lì per lì, ha pensato Grazie al cielo anche se era ateo, ed è stato un mese sul letto dell’ospedale, aspettando che le croste nella pancia si cicatrizzassero e i lividi in testa sparissero, e si faceva le sigarette con la carta di giornale, svuotando dei mozziconi trovati per terra che gli portavano le infermiere. Da quella volta dice che non ha mai smesso di fumare perché tanto, per lui, dai diciannove in poi eran tutti anni regalati.

E quindi un mese dopo, uscito dall’ospedale, mio nonno, Corrado, è tornato in prigione, nella cella di prima, quella dove il prete gli aveva dato l’estrema unzione. Solo che era diverso, stavolta, invece di un crostino di pane e una ciotola d’acqua sporca al giorno, il capo fascista gli faceva portare un crostino di pane e mezzo e dell’acqua pulita. E poi la sera, dopo che erano diventati un po’ confidenti, gli chiedeva se non aveva voglia di accompagnarlo fuori a cena, là, nel bordello, nella casa di piacere, e di riportarlo a casa e tornarsene in cella, perché il capo fascista, di lui, di Corrado, si fidava.

E così mio nonno, senza neanche capire il perché, quasi tutte le sere usciva dalla cella, andava in una casa di piacere col capo fascista della prigione, si sedeva su una seggiola e aspettava che il suo carceriere finisse quello che doveva fare. Poi, quando aveva finito, lo riportava a letto, sorreggendolo fino alla prigione perché veniva sempre fuori ubriaco, e dopo, messo a letto il suo carceriere, mio nonno tornava nella sua cella a dormire, chiudendosi la porta dietro le spalle. Stava lì ad aspettare chissà cosa, ma era appena guarito e non sapeva cosa fare, così, nell’immediato, e quindi tornava nella sua cella, ché aveva anche una gran voglia di riposarsi, dopo tutte quelle botte.

Questa cosa qui, quella di mio nonno che tutte le sere portava il fascista a puttane e lo riportava a letto, è durata quasi un mese.

Poi una sera, mentre mio nonno, Corrado, era lì seduto sulla solita sedia con le mani sulle ginocchia a guardarsi intorno nella casa di piacere, ad aspettare che il suo carceriere finisse quello che doveva fare, sono arrivate tre donnine mezze nude, tre puttane, e han cominciato a parlare con lui. Lui, mio nonno, che era timidissimo, almeno con le donne, non sapeva cosa dire. Però notava che i discorsi delle tre donnine si stavano spostando dalle moine sempre più verso il politico.

Sai Corrado, gli han detto a un certo punto, sai che quello che c’era prima a capo della prigione, quello che ammazzava di botte voi prigionieri, ne ha ammazzati venti, in quel modo lì? Eh, lo so bene, rispondeva mio nonno, anche con me c’era quasi riuscito. Sai Corrado, continuavano le tre donnine, sai che adesso sappiamo il nome e il cognome e se vuoi te lo diciamo così puoi vendicarti? Oh, non lo so mica io, rispondeva ancora mio nonno, non capisco e diciamo che non voglio capire. Dai Corrado, han detto quelle facendosi serissime tutto d’un colpo, Corrado, domani sera, tu, quando porti qui quel puttaniere fascista, vieni con noi che andiamo a fare una cosa. Ma non lo so, ha detto mio nonno allarmato, non lo posso mica fare di andare dove mi pare, sono in galera. Sì che puoi, Corrado, gli hanno risposto le donnine, ci pensiamo noi, te non preoccuparti.

Quella notte lì, mio nonno, dopo aver messo a letto il fascista ubriaco come al solito ed essere tornato in cella come al solito, dice che non riusciva a prendere sonno.

La sera dopo, infatti, ha riaccompagnato il suo carceriere nella casa di piacere. Lui, il fascista, gli ha detto Aspettami qui, ed è andato a fare le sue cose. Intanto mio nonno si è seduto sulla seggiola ad aspettare, ma non era mica tranquillo, gli tremavano un po’ le gambe. E poi sono arrivate le tre donnine, le tre puttane della sera prima, l’hanno abbracciato e gli han detto Corrado, vieni con noi, usciamo qui di dietro. E sono usciti, tutti e quattro. Lì dietro c’era un camion di quelli dell’esercito, solo che dentro non c’erano i fascisti, ma dei partigiani vestiti da fascisti. Appena hanno visto mio nonno, in silenzio, gli han dato una divisa fascista e l’han caricato sul camion. Salta su, gli han detto.

Mio nonno è saltato su, e dentro c’era proprio quel sadico del suo aguzzino di una volta, quello che voleva ammazzarlo di botte, legato dalla testa ai piedi e con qualche livido sulla faccia, gli avevano tappato la bocca. Mio nonno, Corrado, dice che ci è rimasto di pietra.

Poi il camion è partito. Nel tragitto erano tutti agitati, ma non è successo niente. Passa il primo posto di blocco e niente, tutto a posto, i documenti erano in regola. Passa il secondo posto di blocco, e tutto a posto anche lì, tutto in regola. Finché, arrivati in mezzo ai campi, i partigiani han preso il fascista, l’hanno slegato e gli hanno dato una pala.

Scava, gli hanno gridato. E lui, il fascista, s’è messo a scavare. E intanto piangeva.

Finito il buco, l’hanno messo in ginocchio. Corrado, han detto i partigiani a mio nonno mettendogli in mano una pistola, Corrado, adesso pensaci tu, vendicati.

Mio nonno racconta che ha preso in mano la pistola, l’ha guardata, è rimasto lì cinque minuti in silenzio e il cuore gli stava venendo fuori dalla bocca. Ha fatto un respiro e ha guardato il fascista in ginocchio che piangeva e tirava su col naso. Non sapeva cosa fare.

No, non me la sento, ha detto coi partigiani, davvero, non ci riesco.

Loro, senza perder tempo, gli han detto Va bene, Corrado, allora vai via e torna a casa a nasconderti, subito.

E mio nonno, Corrado, ha tirato un altro respiro, si è cambiato i vestiti e si è incamminato al buio in mezzo ai campi, piano piano, un tumulto in testa e le gambe che tremavano, si è acceso una sigaretta fatta con la carta di giornale che aveva trovato in tasca. Da lontano ha sentito una schioppettata, poi tutto è ritornato in silenzio.

***

Sai Marco, mi ha sempre raccontato, perché coi nonni funziona così, quando invecchiano, succede sempre che ti raccontano la stessa storia una decina di volte e tutte le volte è come se fossero lì a raccontarti quella storia per la prima volta, secondo loro. Sai Marco, mi diceva sempre, ci vuole del coraggio a sparare a una persona, e io, quella volta lì, il coraggio non ce l’ho avuto.

Io lo ascoltavo sempre come se fosse stata la prima volta che me lo raccontava. E non gliel’ho mai detto, a mio nonno, ma quando penso al coraggio, la prima immagine che mi viene in mente è la sua, è mio nonno, Corrado, con le mani in tasca, una notte di tanti anni fa, da solo, coi pensieri in testa come un tumulto, la tremarella nelle gambe e una sigaretta fatta con la carta di giornale in bocca. Il coraggio, per me, è mio nonno, Corrado, che cammina per tornare a casa. Perché delle volte ci vuole del coraggio, penso, ci vuole del coraggio anche a non averne, del coraggio.

Ecco, grazie.
Questa cosa, come dicevo, l’ho letta in giro per dieci anni o più, e faceva più o meno l’effetto che ha fatto anche adesso. Solo che quell’ultima frase:

Perché delle volte ci vuole del coraggio, penso, ci vuole del coraggio anche a non averne, del coraggio.

Forse è quella che parla della Tregua. Una Tregua così lunga, di quasi 80 anni, che continua, e che chi ci è nato e invecchiato dentro può addirittura chiamare Pace, e può far diventare la Pace un valore, non solo una faccenda diplomatica tra dei paesi che si erano fatti la guerra…
Forse la Tregua è l’accorgersi che possiamo essere delle bestie, e fare in modo che non lo siamo più.

C’è un altro scrittore, Sandro Veronesi, che qualche mese fa, ad Alba, durante le celebrazioni del centenario dalla nascita di Beppe Fenoglio, scrittore e partigiano piemontese, in un intervento intitolato “Quanto ci manca Fenoglio” dice così:

Oggi, rileggendo Una questione privata [un libro di Fenoglio] mi sono accorto che il treno in cui viaggiavo era mezz’ora in ritardo. Ero contento. Ero immerso nella guerra e nella pace, quella pace che ogni volta mi fa rileggere tutto il libro per arrivarci, per arrivare al punto in cui Milton [il partigiano protagonista del romanzo] è alla macchia, ormai già cane sciolto, e nel bosco incontra i vecchi contadini, il più vecchio, con la barba e i capelli bianchi, gli chiede quando finirà la guerra. Milton gli risponde «a primavera», ma il vecchio insiste, chiede quando a primavera di preciso, e Milton gli risponde «a maggio». A quel punto il contadino gli dice «e allora non ne perdonerete nemmeno uno, voglio sperare». «Nemmeno uno – dice Milton – siamo già intesi». Il vecchio contadino però insiste: «Tutti, li dovete ammazzare, perché non uno di essi merita di meno. La morte, dico io, è la pena più mite per il meno cattivo di loro». E Milton di nuovo lo rassicura: «Li ammazzeremo tutti. Siamo d’accordo.» Ma il vecchio contadino non è ancora soddisfatto, e iniste di nuovo, e spiega a Milton che quando dice tutti intende proprio tutti, «anche gli inferimieri, i cucinieri, anche i cappellani». E prosegue con una tirata terribile su quello che, quando verrà il giorno, i partigiani dovranno fare: niente perdono, dice, niente pietà né nausea di sangue: «Chi quel gran giorno – dice il contadino – non sarà sporco di sangue fino alle ascelle, non venitemi a dire che è un buon patriota» […] viene voglia di essere odiati, di odiare, quando l’odio viene raccontato così. Ma si deve uscirne, e oltre a una Costituzione umana e modernissima, oltre all’abolizione della pena di morte, per uscirne c’è bisogno di pagine come questa, e di scrittori come Beppe Fenoglio, che ti ricordino da quale abisso siamo venuti fuori, per far sì che sia un pochino più difficile ritornarci.

Ecco: l’abisso da cui da cui siamo venuti fuori.
Nella nostra Costituzione, quella Costituzione “umana e modernissima” come la definisce Veronesi, la parola “pace”, tra l’altro con la lettera minuscola, compare tre volte. La terza parla della giurisdizione di pace, cioè del “giudice di pace” che è una cosa che non c’entra. Le altre due sono:

Nall’articolo 11 (quello importante):

L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.

L’altra è all’articolo 103, dove si dice: 

I tribunali militari in tempo di guerra hanno la giurisdizione stabilita dalla legge. In tempo di pace hanno giurisdizione soltanto per i reati militari commessi da appartenenti alle Forze armate.

(Secondo me anche l’articolo 103 bisognerebbe applicarlo un pochino meglio, ma vabbè, stasera lasciamo perdere.)

Anche la nostra Costituzione, se uno ci fa caso, definisce la pace in termini di guerra, e sembra trattarla come una Tregua, una Tregua tra una guerra e la successiva.

Per questo motivo forse è meglio essere un po’ più preparati al peggio di quanto diamo per scontato, dell’acqua in cui nuotiamo noi giovani pesci nati senza guerra.
E quindi l’ultima cosa che vi voglio leggere, l’ho letta qualche mese fa a Carpi, il 22 aprile, durante una manifestazione chiamata Nottambula, insieme al mio amico Luca Zirondoli (è stata un’idea sua), è un testo tratto da “Indicazioni stradali sparse per terra” di Nedžad Maksumić, se l’ho detto bene, poeta e regista teatrale bosniaco, che scriveva così:

Era un anno fertile per il grano come mai in passato, era tutto in abbondanza. Quelli che erano malati cronici e che tanto desideravano la morte, consegnarono finalmente con un sorriso l’anima a Dio. Nei giorni dei grandi temporali il cielo era rosso. La pioggia portava con sé la polvere dei deserti d’oltremare. I vecchi dissero: ci sarà la guerra! Nessuno prestò credito alle loro parole. E nessuno fece nulla. Nessuno fece nulla. Giacché, cosa si poteva fare contro la profezia! Solo cantammo per intere giornate, fino a restare senza voce, per poter consumare tutte le vecchie canzoni, perché non ne restasse nessuna che venisse sporcata dal tempo.

  1. Quando intravedono il primo cadavere per la strada, le persone voltano la testa, vomitano e perdono i sensi. Senti il tremore per primo nelle ginocchia, poi ti manca l’aria, ti gira la testa. Sono di aiuto in questi casi l’acqua fredda, leggeri schiaffi. Se lo svenuto non rinviene, sdraialo sulla schiena e sollevagli le gambe in aria. Se il cadavere di quel giorno era un suo parente o comunque un vicino, non permettergli di avvicinarsi e di guardarlo. Le ferite causate dalle granate sono in genere causa di un nuovo svenimento. E non si ha tanto tempo a disposizione. Mai. È raccomandabile piangere, fa bene al cuore. Ma neppure per questo c’è tanto tempo a disposizione.
  2. Se la città è in stato d’assedio, occorre mandare i più coraggiosi a tentare di portare i sacchi di plastica opachi per i cadaveri. Se questi non tornano, bisogna avvolgere i morti in lenzuoli bianchi. Non è raccomandabile seppellirli senza. Ciò fa diffondere il panico e la paura della morte diventa facilmente la paura di finire sepolti allo stesso modo.
  3. La sepoltura si svolge di notte, per motivi di sicurezza. Perciò, prima della sepoltura, bisogna accertarsi per bene dell’identità del defunto. Nel caso di corpi dilaniati, bisogna stabilire con precisione i pezzi che appartengono a ciascun corpo. Se si verificano ugualmente degli errori, è meglio evitare di ammetterlo successivamente. Tanto per i morti è lo stesso. Se vicino alla persona che è stata sepolta, sul posto dell’uccisione, si trovano altre parti di corpo, e si è però già provveduto alla sepoltura, non bisogna gettare i resti nella spazzatura, poiché in genere si radunano i cani affamati. La cosa migliore, se si ha tempo e voglia, è di raccogliere in un sacchetto tutto quello che è rimasto e di seppellirlo in superficie vicino alla tomba. Bisogna stare attenti che non se ne accorgano i familiari, perché loro concepiscono il cadavere come un tutt’uno e tale frammentazione rappresenterebbe per loro una ulteriore dolorosa frustrazione.
  4. In guerra nessuno è matto. O almeno ciò non si può asserire nei confronti di nessuno. Molti di quelli che erano matti prima della guerra, in guerra si mettono in mostra molto bene. Come combattenti coraggiosi, convinti delle idee dei loro capi.
  5. In guerra nessuno è intelligente. Non devi credere alla verità di nessuno. Le lunghe disquisizioni sull’insensatezza della guerra del professore di una volta, in un batter d’occhio si trasformano in un selvaggio grido di guerra, appena egli viene a conoscenza del fatto che il suo bambino gli è morto per la strada.
  6. Non ricordarti di nulla. Prova a dormire senza sonno. Devi ornarti di amuleti e abbi fede nel fatto che ti aiuteranno. Abbi fede in qualsiasi segno. Ascolta attentamente il tuo ventre. Agisci secondo le tue sensazioni. Se pensi che non bisogna camminare per quella strada, allora vai per un’altra.
  7. Non avere paura di niente. La paura genera nuova paura. Ti blocca. Devi credere fermamente di essere stato prescelto a restare vivo.
  8. Non lasciare lavori compiuti a metà. Salda i debiti. Devi essere pulito. Non fare nuove amicizie. Già con quelle vecchie avrai abbastanza preoccupazioni.
  9. Proteggi i ricordi, le fotografie, le prove scritte del fatto che sei esistito. Se tutto brucia, se perdi tutto, se ti prendono tutto… dovrai dimostrare anche a te stesso che una volta eri. Ammassa tutto nei sacchi di plastica, seppellisci nella terra, mura nelle pareti, nascondi, e solo ai tuoi più cari svela la mappa per raggiungere il tesoro.
  10. Non ti legare alle cose, alla terra, ai muri, alle case, ai gioielli, alle automobili, agli oggetti d’arte, alle biblioteche… Trasforma in denaro tutto ciò che ha ancora un prezzo. E tuttavia, non legarti in alcun modo al denaro. Appena puoi scambialo con la tua libertà.
  11. Adoperati per il bene delle persone. Sempre. Il più delle volte non lo meritano, ma tu fallo ugualmente. Non aspettarti alcuna riconoscenza. Non chiedere per chi fai il bene. Non legarti alle tue azioni.
  12. Non dire ciò che pensi. Non essere stupido a tal punto. Perché quando pensi non appartieni più a loro. Non tacere, perché non possano pensare che pensi a qualcosa. Parla, così, giusto per parlare.
  13. Se ti imbatti nel pericolo, non essere coraggioso, anche spinto dalla disperazione. Tenta di sopravvivere. Fai tutto quanto è nelle tue possibilità. Soltanto devi stare attento a non mettere altri in pericolo con i tuoi tentativi. Finché non sei morto sei vivo. Sembra comprensibile. Non togliertelo mai dalla testa. Se devi sacrificarti, fallo per le persone cui vuoi bene, non farlo mai, in nessun modo, per delle idee. Il tuo sacrificio verrà giudicato dagli altri sempre in maniera scorretta, a seconda della loro coscienza e della loro prospettiva. Le idee passeranno, si rovineranno, diventeranno comiche. Se resti vivo, vedrai quanto sarà difficile continuare a credere in esse.
  14. Non supplicare per nessun motivo. Non supplicare nessuno. Neanche se c’è di mezzo la vita. È una questione di buon gusto. Pensa solo cosa vuol dire vivere sullo stesso pianeta con una persona che ti ha risparmiato la vita.
  15. Non devi metterti a capo di nessuno. Per nessuna ragione. Quando ti volti a cercare aiuto, dietro a te non ci sarà nessuno. Non fare affidamento su nessuno, ma non sottrarti al fatto che quelli che ami fanno affidamento su di te. Questo è salutare anche per te. Gli obiettivi non devono essere
    grandi, in nessun modo di carattere generale. Conoscevo una persona che per tutto il tempo ha desiderato bere una birra. È vero: non ci è riuscito, ma era splendido vivere desiderandolo.
  16. Non devi stupirti di nulla. Di ogni possibile prodigio. Non devi farti deprimere da nessuna cosa. Anche prima erano tutti fatti così, solo che le condizioni erano diverse da quelle di adesso. Questa è la prima occasione per mettersi alla prova. Così tanti sono delusi da sé stessi che in confronto la tua delusione è un nonnulla. Se qualcuno ti tradisce una volta, non lasciargli la possibilità di farlo un’altra volta.
  17. Cerca di essere sempre prudente. Se hai bisogno di una buca in cui ripararti, scavatela da solo. Se qualcun altro lo fa per te, la buca potrebbe rivelarsi troppo piccola.
  18. Non hai il diritto di adirarti con nessuno. E tuttavia, non devi dimenticare nulla. Quando tutto è finito, decidi di cosa non vuoi più ricordarti. Se tutto è passato, non dimenticare gli esami che alcuni non hanno superato.
  19. E però non fondarti su questo. Non aspettare l’occasione per poterti rivalere. La vendetta ti deve essere estranea. Una questione che appartiene ad altri. Se sopravvivi, vivi per te e per quelli che sono sopravvissuti insieme a te.
  20. E ancora, non credere mai di essere il Signore della Verità. Nessuno lo é. A te è sembrata in questo modo. A un altro è sembrata diversamente. Mantieni per te il pezzetto della tua verità. Servirà soltanto a te. Rinuncia al diritto di scrivere la storia dell’assedio. Non contrapporti ai nomi di quei morti che sono stati scelti come eroi. Non sperare di riuscire a mettere a posto qualcosa, neanche un’ingiustizia rimasta in sospeso. In quel momento, quando hai intravisto il primo cadavere sulla strada, la storia del dopoguerra era già stata scritta. Poi ci metteranno solo i nomi delle persone, delle città, delle montagne, i baluardi che si sono gloriosamente difesi e i baluardi che sono gloriosamente caduti. Non c’è posto qui per la tua verità.

Ora che sai tutto questo, prova a proteggere te stesso e forse a salvarti la testa. Se non ti riesce, almeno non ti annoierai.

Ecco. Spero che anche voi non vi siate annoiati.
Nel caso, chiedo scusa.

Ma comunque, adesso basta, questo discorso, che alla fine si è intitolato “Questa è la Tregua”, è finito.
La Tregua, però, continua, con il concerto di Eugenio Finardi, Raffaele Casarano e Mirko Signorile.

Grazie a tutti.
Ciao.


[Non so che effetto faccia questo discorso messo giù così per iscritto, ma è la prima volta che leggo per mezz’ora – forse qualcosa in più – senza essere accompagnato da qualcuno che suona e, beh, devo dire che secondo me non è andata malissimo. C’era un silenzio che metteva soggezione. E non ringrazierò mai abbastanza il Coro delle Mondine di Novi di Modena, Diego Zanotti e in fondo anche tutto quel borgo selvaggio da cui tento di fuggire da sempre ma, come diceva quello là: credo che la voglia di scappare da un paese con 20.000 abitanti vuol dire che hai voglia di scappare da te stesso, e credo che da te non ci scappi neanche se sei Eddy Merckx.]

(con Eugenio Finardi e Grushenka. Molto contenti)


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Una risposta a Questa è la Tregua? (un discorso)

  1. Alessandro ha detto:

    Complimenti Marco, mai banale, sempre con quello spirito semplice ma accattivante. Peccato scoprire queste cose in ritardo, mi piacerebbe partecipare qualche volta ad un evento.
    Grazie anche per questo vostro continuare a coltivare la “Giusta Memoria” nel nome di tutti.
    Anche mia moglie è certa di avermi tolto ” il selvatico”, ne serbo comunque sempre una quota a me indispensabile.
    Saluti.

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