Il nome del padre

Mio padre si chiama Iules, ma non si è sempre chiamato così. Prima era Jules, con la J.
Fino ai quarant’anni, più o meno, cioè fino all’età che ho io in questo momento, e a pensarci mi gira un po’ la testa, su alcuni dei suoi documenti c’era la I, su altri c’era la J. All’anagrafe dicevano che c’era la I ma poi si grattavano la nuca e rispondevano che boh, non erano sicuri neanche loro, perché una volta le schede venivano compilavate a mano e proprio lì, sotto la I di Iules, c’era uno sbavo. Non si capiva se fosse inchiostro sputato dalla penna o uno sbavo intenzionale. Nel 1953 la J non era una lettera tanto in voga, c’era della gente che non la conosceva e l’impiegato dell’epoca, nel dubbio, c’era il caso che avesse sbavato apposta.

Mia nonna, sua madre, gli aveva messo nome Jules perché era una grandissima appassionata dei fotoromanzi su Grandhotel, e nei fotoromanzi di Grandhotel c’era questo Jules che, da quello che avevo capito quando me l’aveva spiegato, era un gran figo. Allora m’immagino che mio nonno, quando era corso all’anagrafe per registrare suo figlio, su un bigliettino avesse scritto Jules copiandolo da un numero di Grandhotel con la calligrafia tremolante per l’emozione, e non s’immaginava, forse, che Jules si dovesse leggere alla francese. All’impiegato dell’anagrafe avrà detto «iules», poi gli avrà fatto vedere il bigliettino e l’impiegato, nel dubbio, deve aver compilato la scheda, forse apposta, con lo sbavo.

Mi ricordo che mio padre fino ai quarant’anni, più o meno, cioè fino all’età che ho io in questo momento, che è una cosa abbastanza incredibile, si firmava con una I che sembrava una J, ed era contento così. Faceva un più bel ricciolo sotto la I, una cosa quasi artistica, una felicità ogni volta che doveva firmare un assegno o un voto sul mio diario o una giustificazione per la scuola o una nota. E io lo guardavo sempre con ammirazione, ogni volta che firmava, e gli dicevo: «Papà ma che bella firma, e che bel nome» .

A un certo punto, però, gli era arrivata una lettera dallo Stato. Dentro c’era scritto che bisognava prendere una decisione per chiudere la questione, perché lassù, negli uffici misteriosi dello Stato, non erano mica tanto sicuri che fossero arrivate tutte le bollette e fossero state pagate tutte le tasse.
Con quella lettera gli dicevano: Gentilissimo Sig. Iules, o Jules, si decida, le mandiamo un modulo da compilare e lei sceglie il suo nome una volta per tutte, noi le inviamo dei documenti nuovi di zecca e aggiorniamo tutte le sue pratiche; però si decida, perché qua non ci capiamo niente.
E mio padre, me lo ricordo proprio così, è stato una settimana col mento appoggiato sul pugno, seduto al tavolo della cucina, a decidere come chiamarsi da lì in poi.

Una mattina, senza dir niente a nessuno, si è alzato presto ed è andato a spedire il modulo. Quando è tornato a casa si è fatto un caffè, e quando ci siamo svegliati, io e mia sorella, ci ha detto: «Ragazzi, ho una notizia da darvi: adesso mi chiamo Iules con la I.»

(è quello con la camicia gialla, una ventina d’anni prima di decidere di chiamarsi definitivamente Iules)

Ho sempre pensato che decidere il proprio nome a quarant’anni, più o meno, sia una cosa giusta. Lo penso anche adesso, che ho quarant’anni anch’io, anche se faccio ancora fatica a rendermene conto.
Se fosse per me, scriverei, voterei e approverei una legge per la quale ognuno, a quarant’anni, più o meno, o anche prima, se vuole, può scrivere una lettera allo Stato dove gli dice che nel pieno delle facoltà mentali ha preso la decisione fortemente ragionata, ponderata e magari anche discussa con la famiglia, di cambiare nome. E anche il cognome, se uno ha voglia.  Poi, ovviamente, se a uno piace il nome che porta, quello che gli hanno dato alla nascita, lo può anche tenere. Non ci sarebbero obblighi, solo libertà e prese di coscienza. Sarebbe una specie battesimo laico. Una cosa matura per una persona e, mi viene da pensare, anche per uno Stato.
Io, per esempio, non avrei dubbi.
Io, lo so per certo, se potessi, da domani mi chiamerei John Laser.

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Questa cosa l’avevo scritta su Barabba, dieci anni fa, la rimetto qui oggi un po’ rimaneggiata, che è la festa del papà. Ciao papà, auguri.
E STAI A CASA, santocielo.
Stasera ci sentiamo. Ti videochiamo.
Ciao.


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