Il nome del padre

C’è una cosa che avevo scritto su Barabba, ormai quattordici anni fa. Magari cambio qualche virgola o una frase o un tempo verbale, perché sono fatto così, ma tutti gli anni la ripubblico il 19 di marzo, quando mi ricordo, per la festa del papà. Quest’anno, come sto facendo da un po’, l’ho letta a voce alta e, se vuoi, tu, chiunque tu sia, che passi di qui per caso o per forza, la puoi ascoltare:

Mio padre si chiama Iules, ma non si è sempre chiamato così. Prima era Jules, con la J.
Fino ai quarant’anni, o poco più, cioè fino all’età che ho io in questo momento, che a pensarci mi gira un po’ la testa, su alcuni dei suoi documenti c’era la I e su altri c’era la J. All’anagrafe dicevano che c’era la I, ma poi si grattavano la nuca e rispondevano che boh, non erano tanto sicuri neanche loro, perché una volta le schede venivano compilate a mano e proprio lì, sotto la I di Iules, c’era una specie di sbavo. Non si capiva se fosse inchiostro sputato dalla penna o uno sbavo intenzionale: nel 1953 la J non era una lettera molto in voga, c’era anche della gente che non la conosceva e forse l’impiegato dell’epoca, nel dubbio, o per timidezza, aveva sbavato apposta.

Mia nonna Ada, sua madre, gli aveva messo nome Jules perché era una grandissima appassionata dei fotoromanzi di Grandhotel, e nei fotoromanzi di Grandhotel c’era un personaggio di nome Jules che, da quello che avevo capito quando aveva provato a spiegarmelo, era un gran bel figaccione. Allora m’immagino che mio nonno, quando era corso all’anagrafe per registrare suo figlio, avesse scritto Jules su un bigliettino, copiandolo da un numero di Grandhotel con la calligrafia tremolante per l’emozione e per la scarsa abitudine allo scrivere, e non s’immaginava, forse, che Jules si dovesse leggere alla francese. All’impiegato dell’anagrafe aveva detto «iules», così, leggendolo com’era scritto, poi gli aveva fatto vedere il bigliettino e l’impiegato, nel dubbio, doveva aver compilato la scheda, forse apposta, con quello sbavo sulla I per farla sembrare una J.

Mi ricordo che mio padre fino ai quarant’anni, o poco più, cioè fino all’età che ho io in questo momento, che è una cosa abbastanza incredibile, si firmava con una I che sembrava una J, ed era contento e a posto così. Faceva anche un più bel ricciolo, sotto la I, una cosa quasi artistica, una specie di manifestazione di felicità ogni volta che doveva firmare un assegno o un voto sul mio diario o una giustificazione per la scuola. E io lo guardavo sempre con ammirazione, quando firmava, e gli dicevo: «Papà ma che bella firma, ma che bel nome» .

Solo che poi, un giorno, gli era arrivata una lettera dallo Stato o da quella cosa che adesso si chiama Agenzia delle Entrate e una volta si chiamava in un altro modo. Dentro c’era scritto che bisognava prendere una decisione per chiudere la questione, perché lassù, negli uffici misteriosi della burocrazia statale, non erano mica tanto sicuri che fossero arrivate tutte le bollette e che fossero state pagate tutte le tasse.
Con quella lettera gli dicevano più o meno che: Gentilissimo Sig. Iules, oppure Jules, si decida, Le mandiamo un modulo da compilare e Lei, entro e non oltre la tal data, deve scegliere il nome con cui vuoLe essere identificato una volta per tutte; in seguito Le invieremo tutti i documenti nuovi di zecca e aggiorneremo tutte Le sue pratiche; però si decida, perché qua non ci capiamo niente. Fiduciosi nella Sua pronta collaborazione, le porgiamo i nostri più Cordiali Saluti. Firmato: Lo Stato.

E mio padre, me lo ricordo proprio così, è stato una settimana col mento appoggiato sul pugno, seduto al tavolo della cucina, a decidere come chiamarsi da lì in poi.

Poi una mattina, senza dir niente a nessuno, si era alzato presto, si era vestito bene ed era andato alle Poste a imbucare il modulo compilato. Quando era tornato a casa si era fatto un caffè, e quando ci eravamo svegliati tutti, mia mamma, mia sorella e io, ci aveva chiamati in cucina e ci aveva detto: «Ragazzi, ho una notizia da darvi: mi chiamo Iules con la I.»

(Mio papà, Iules, con la I, un paio di settimane fa, mentre imbottigliavamo del Lambrusco di Sorbara)

***

Ho sempre pensato che decidere il proprio nome a quarant’anni, o poco più, sia una cosa giusta e dignitosa. Lo penso anche adesso, che ho poco più di quarant’anni anch’io, anche se faccio ancora fatica a rendermene conto.
Fosse per me, scriverei, voterei e approverei una legge per la quale ognuno, a quarant’anni, o poco più, o anche prima, se vuole, può scrivere una lettera allo Stato dove gli dice che nel pieno delle facoltà mentali ha preso la decisione, fortemente ragionata, ponderata e magari anche discussa approfonditamente con la famiglia, di cambiare nome. Anche il cognome, se vuole.  Poi, ovviamente, se a uno piace il nome che porta, cioè quello che gli hanno dato alla nascita, può tenerselo senza problemi. Non ci sarebbero obblighi, solo libertà e prese di coscienza. Sarebbe una specie battesimo laico, una cosa matura per una persona e, mi viene da pensare, anche per uno Stato.
Io, per esempio, non avrei dubbi.
Io, lo so per certo, se potessi, da domani mi chiamerei John Laser.


Una cosa cui devo dare atto a mio papà, Iules Manicardi con la I, è che, a differenza di tutto il resto del parentado vivente, non si è ancora mai creato un profilo su facebook e neanche su Instagram.
Bravo papà, auguri.


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2 risposte a Il nome del padre

  1. Silvano Paltrinieri ha detto:

    Sempre belle le tue storie.
    Complimenti

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