Don’t Panic

Volete sapere qual è la risposta alla domanda fondamentale sulla vita, l’universo e tutto quanto? Adesso ve la dico. C’è una foto che mi vede esultante, sedicenne, pischello, in braghette da ciclista, maglietta attillata rossa e bianca della Ciclistica Novese Confezioni Carsil, caschetto aerodinamico ben allacciato e occhiali Briko a mosca come andavano di moda a quei tempi là, negli anni novanta. Quando la faccio vedere in giro, di solito, dico: «Ecco, qui ero sullo Stelvio».
Mica vero: dovevamo ancora salire.
Eravamo io e mio padre con le bici, e mio nonno col furgone, che ci seguiva. E poi, sì, c’era lo Stelvio. Lo Stelvio, che non finiva mai.
E quindi, dopo aver scattato la foto, prendiamo le bici, io e mio padre, mio nonno sale sul furgone e partiamo. Il racconto che segue, che metto tutto al presente per rendere meglio l’idea e la fatica, inizia al decimo tornante; prima avevamo fatto qualche chilometro di pianura per scaldarci un po’ e nove tornanti erano già andati via abbastanza lisci.

***

Al decimo tornante sono già da solo, mio padre si è staccato e alla fine me lo vedrò arrivare dietro sul furgone. Al ventesimo tornante gli alberi cominciano a diventare sempreverdi. Al venticinquesimo, quando tiro il manubrio con le mani per farmi forza, la ruota davanti si stacca dall’asfalto, la pendenza è al dieci percento. La maglietta è bagnata, ho finito la prima borraccia d’acqua e ho mangiato tutte le barrette di cioccolata che avevo messo nei taschini della maglia prima di partire, e un po’ bestemmio, ma solo un po’. Diobono.

Al trentesimo tornante mi raggiunge un tedesco sui vent’anni, mi vede in difficoltà e prova a spingermi con la mano sul culo, è abbastanza fresco e pimpante e vuol fare conversazione con me, ma tanto io il tedesco non lo so, e so poco anche l’inglese, e poi sono troppo occupato a prendere fiato per parlare. Lui mi regala una barretta, tipo un muesli o una cosa così, e io ci provo, a masticarlo, ma non ho più una goccia di saliva per mandare giù del riso soffiato e colloso, e allora lo sputo. Il tedesco sembra rimanerci male, allora si alza sui pedali e mi stacca senza salutare.

Al trentacinquesimo tornante gli alberi non ci sono più, c’è dell’erbetta sparuta, qualche marmotta, un silenzio che snerva, interrotto dal mio fiatone, inspirare, espirare. Incrocio alcune macchine che scendono dalla cima e sento delle zaffate di plastica bruciata: è l’odore dei loro freni a disco che si sciolgono. Non c’è neanche più il tempo per ritagliarsi una bestemmia tra un respiro e l’altro, e intanto la testa mi si piega di lato, un orecchio s’intoppa, cerco un rapporto più corto e più agile, ma la catena è già sull’ultimo, 39×23, se non mi ricordo male, che è il rapporto più leggero d’ordinanza per la mia categoria, non l’avevo cambiato prima di partire ed è una roba da matti, una roba impossibile.

Quando sali lo Stelvio non puoi permetterti di smettere di pedalare, devi salire e basta, e io sono delle ore che spingo, pedalata dopo pedalata, pedalata e colpo di tosse, pedalata, pedalata, pedalata, il sudore arriva sugli occhi e brucia, pedalata, pedalata, pedalata, bevo un sorso d’acqua e al quarantesimo tornante non c’è neanche più l’erbetta ai bordi della strada, i tornanti che restano ce li ho tutti lì davanti agli occhi e mi sento male. Sono lì da solo, non penso più a niente, e mi sento male.

Finisce anche la seconda borraccia, tocca andar su senz’acqua. Al quarantacinquesimo tornante ne mancano solo tre, abbozzo un sorriso, sto andando agli otto, nove chilometri l’ora da ore, da sempre. Adesso provo ad accompagnare ogni pedalata con un dondolìo della schiena, la postura è scompostissima, ma la testa guarda avanti, alla cima.
Diobono, dài. Dài che ci siamo.

È al quarantasettesimo tornante che sento delle voci che chiacchierano amabilmente alle mie spalle, ed è al quarantottesimo tornante, l’ultimo, che quelle voci mi sorpassano allegre: sono Bartoli e un suo compagno di squadra che si allenano. Sembra che stiano facendo il cavalcavia di Rolo sulla Modena-Brennero. Li mando a cagare col poco pensiero che mi rimane, tanto sono arrivato, non scendo neanche dalla bici e mi appoggio con una mano al palo del cartello Passo dello Stelvio. Sto fermo lì.

Sto fermo lì per dieci minuti, senza dir niente, senza pensare a niente, guardo solo un po’ la neve del ghiacciaio, senza pensieri, solo il fiatone che piano piano rallenta. E intanto sento Bartoli che dice al suo amico: «Adesso andiamo giù dall’altra parte e torniamo su, ti va? Dopo pranziamo». In quel momento preciso, lì, attaccato con una mano al palo del cartello Passo dello Stelvio, con i piedi ancora agganciati ai pedali, con la testa piegata e la maglia bagnata fradicia, mentre arriva il furgone guidato da mio nonno con mio padre seduto di fianco, chiudo gli occhi e mi vedo da fuori, in terza persona, ed è lì che capisco che forse, quel ragazzo lì di sedici anni stremato sulla bici e attaccato con una mano al palo del cartello Passo dello Stelvio, forse, lui, nella vita, dovrebbe cominciare a fare delle altre cose.

Ma vi avevo promesso la risposta alla domanda fondamentale sulla vita, l’universo e tutto quanto. Adesso ve la dico: è 48.

(ai piedi dello Stelvio, prima di partire)

[Oggi è il #towelday e questo pezzo l’avevo postato su Barabba nel 2011; lo metto anche qui con qualche piccola modifichina, così anche per oggi siamo a posto.]


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