Cose che succedevano quando c’era Obama

Quando sbarco al JFK incontro Diego, che è arrivato da Torino con un altro aereo. Dopo il controllo passaporti ci avviamo verso la metropolitana. Fa molto freddo, per le strade non girano macchine, c’è un metro di neve.
Alla fermata della metro ci aspetta Davide, ci è venuto a prendere e ci ospiterà per cinque giorni a Brooklyn, dove abita da un po’. Quando lo vediamo, sta confabulando con una poliziotta di colore, lei gli spiega che i treni stanno per essere fermati per mancanza di elettricità, colpa di questa maledetta bufera, la chiamano la bufera del secolo. Ma comunque, in qualche modo, dopo un giro di abbracci e di saluti, tutti imbacuccati con due giubbotti, quattro paia di braghe e il muco congelato sulle sciarpe, stipati nell’ultimo vagone disponibile riusciamo ad arrivare a casa di Davide. Quando entriamo siamo quasi assiderati, ci facciamo subito dei litri di caffè americano. Adoro il caffè americano. Poi ci chiudiamo nella stanza di Davide, chiacchieriamo tanto, soprattutto di fascismo e di revisionismo storico. Così passano i cinque giorni.
Quand’è ora di andare, Davide è dispiaciuto, si scusa per non essere riuscito a portarci fuori, a farci vedere New York. Non fa niente, gli dico, tanto l’avevo già vista.
Mentre salgo sul volo di ritorno, apro gli occhi. Sono a Carpi, è domenica mattina. C’è un bel sole, e nemmeno troppo freddo.

(01/02/2015)


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