232 Celsius (circa) s1e05 – il podcast (e la trascrizione)

E questo è il podcast della quinta – e penultima – puntata di 232 Celsius (circa), una trasmissione sui libri, andata in onda alle 18 di venerdì 5 marzo su Radio Sverso. Dura un’ora (circa) ed è diviso in due parti: nella prima Sergio Pilu continua a parlare di un libro che si chiama Furore, del 1939, di John Ernest Steinbeck Jr; e nella seconda parte ci sono io che intervisto Ginevra Lamberti su un libro che si chiama Perché comincio dalla fine, del 2019.

(su Spotify, su Google Podcast, in mp3)

E quella che segue è una specie di trascrizione della puntata, fedele al 98%, diciamo (e in mezzo ci sono anche tutte le canzoni che abbiamo trasmesso):

Stammi a sentire, Montag: a tutti noi una volta nella carriera viene la curiosità di sapere che cosa c’è in questi libri, ci viene come una specie di smania, vero? Beh, dai retta a me, Montag: non c’è niente lì. I libri non hanno niente da dire! Guarda, queste sono opere di fantasia e parlano di gente che non è mai esistita. I pazzi che li leggono diventano insoddisfatti, cominciano a desiderare di vivere in modi diversi, il che non è mai possibile.

(Fahrenheit 451; François Truffaut, 1966)

  • XTC, Books Are Burning (sigla)

Introduzione di Andrea Bentivoglio:

La città fantasma è viva. È viva nel tappeto di libri che copre l’intero pavimento di un’aula scolastica (è così viva che sembra di sentirne il dolore: avete mai camminato sopra centinaia di libri? Provate a farlo. Provate a prendere tutti i libri che avete in casa e gettarli per terra alla rinfusa coprendo le piastrelle che pulite una volta alla settimana, e poi camminateci sopra, e sentite come la carta risponde al vostro peso, come se vi stesse dicendo mi fai male; provate a farlo, e avvertite quella sensazione di colpa e ingiustizia per come state trattando quegli oggetti nei quali la nostra civiltà ha investito tutta se stessa per aiutarsi a vicenda e restare a galla).

232 Celsius (circa) è la trasmissione che Radio Sverso dedica ai libri. Quelli famosi e quelli meno, quelli scritti da gente morta e sepolta e quelli pubblicati da gente viva e vegeta. Perché a noi i libri piacciono, ci hanno spesso cambiato la vita, certamente ce l’hanno resa migliore. Quindi, visto che vi vogliamo bene, cerchiamo di rendere migliore anche la vostra.

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232 Celsius (circa): un programma di Sergio Pilu e Marco Manicardi.

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232 Celsius (circa), quinta puntata; prima parte, dove Sergio Pilu continua a raccontare e leggere Furore di John Steinbeck.

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Nella prima puntata del racconto di Furore, di John Steinbeck, abbiamo visto la famiglia, i Joad ,che parte: lascia tutto, vende tutto quello che ha, si mette su un camioncino, che è un Hudson del ’26, un catorcio sfinito, e… si mettono sulla strada. Li abbiamo lasciati che parlano con l’esercente di una stazione di servizio, il quale non riesce a capire dove sta andando tutta la gente che vede muoversi verso ovest, e glielo dice, continua a dirgli boh io non capisco dove andiamo, dove andremo a finire; e loro glielo spiegano e gli dicono: guarda, siamo tutti nella stessa barca, andiamo tutti a cercarci una vita migliore.
Continuano il viaggio. Muore il nonno e siccome non hanno soldi sono costretti a seppellirlo sul lato della strada, scavano lì una fossa, non gli mettono sopra nemmeno una croce. In California finalmente ci arrivano ma, chi ci è stato lo sa, la California arrivando da est non è esattamente quella che uno si sogna, cioè le valli verdi, il mare, i fiumi, da est la prima cosa della California che trovi è il deserto, è un’immensa distesa di pietre e loro sono terrorizzati dall’idea di attraversarlo su quel catorcio sfinito sul quale si stanno muovendo. Prima di ripartire, Noah se ne va: abbandona la famiglia senza che nessuno, tranne Tom, lo venga a sapere prima del fatto compiuto. Il deserto lo attraversano di notte: davanti guidano, dietro invece, sul cassone, c’è la nonna che sta molto male, con la mamma la tiene fra le braccia, poi ci sono Rosa Tea e Connie che fanno l’amore in silenzio nascondendosi sotto una coperta, e i bambini, sfiniti anche loro, che dormono. Arrivano all’alba, in California, hanno davanti agli occhi quel paese che avevano sognato leggendo i volantini stampati dai produttori di frutta per convincere i contadini dell’Oklahoma a trasferirsi. Vedono là sotto i campi verdi, i paesini con le casette bianche, si fermano e tutti insieme lasciano andare questa esclamazione di stupore: “Gran Dio”, chiamano la mamma e quella scende dal camion ma si capisce che c’è qualcosa che non va, non è contenta come dovrebbe essere. “È morta la nonna” dice, e Tom, a none di tutti, stupito, “ma non ci hai detto niente” e la mamma risponde “la famiglia doveva attraversare il deserto”. Punto.

Arrivano in una baraccopoli, che viene chiamata Hooverville. In realtà si chiamavano tutte Hooverville, perché Herbert Hoover era il presidente di allora e queste erano delle strutture statali, federali, sostanzialmente. È piena di gente che muore di fame, questa baraccopoli, ma letteralmente, non per modo di dire. Muoiono di fame. Loro si aspettavano tutt’altro e invece sono lì in questa specie di enorme e terrificante campo profughi dove incontrano anche gente che dalla California invece sta andando via, se ne torna a casa, quella che era la loro casa, perché i californiani questi immigrati che vengono dall’Oklahoma, dal Kansas, dalla Florida non li vogliono, li chiamano “Okie” così come noi diciamo o dicevamo o eravamo abituati a dire “marocchini”, un nome che in sé non indica una provenienza, ma è un insulto, e li cacciano, gli rifiutano lavoro. E per la prima volta ai Joad viene il sospetto che il bel sogno sia appunto solo un sogno.  

Dopo un po’ se ne devono andare dalla baraccopoli. Scoppia una rissa di origine sindacale, diciamo così, Tom e Casy ci rimangono invischiati. Tom scappa perché lui sta già violando la legge per quella faccenda della libertà sulla parola, e quindi Casy rimane anche per lui e finisce in galera. In tutto il macello, mentre stanno caricando in fretta e furia le loro quattro cose sull’Hudson, si accorgono che Connie, il marito di Rosa Tea, che è molto incinta, non c’è più. Puff, tutti i sogni di vita meravigliosa sfumati, insomma se l’è data e ha lasciato la moglie incinta da sola. Hanno appena messo fuori le ruote dal perimetro del campo, quando incontrano una ronda. E la ronda è fatta da cittadini della zona che si sono organizzati per andare a dar fuoco al campo. Loro sono fuori e nonostante questo i bravi e civili californiani, incrociandoli, li minacciano e insultano senza che loro possano reagire. Dopo qualche minuto, ormai lontani e più o meno al sicuro, si voltano e nel buio della notte vedono all’orizzonte le fiamme della baraccopoli che è stata incendiata con la protezione della polizia.

Ed ecco che nel West subentra il panico, ora che i nomadi vanno moltiplicandosi per le strade. I ricchi sono terrorizzati dalla loro miseria. Individui che non avevano mai provato la fame, ora vedono gli occhi degli affamati. Individui che non avevano mai provato desideri intensi per qualche cosa, vedono ora l’ardente brama che divampa negli occhi dei profughi. Ed ecco gli abitanti delle città e della pigra campagna suburbana organizzarsi a difesa, dinanzi all’imperioso bisogno di rassicurare sé stessi di essere loro i buoni e i cattivi gli invasori, come è buona regola che l’uomo pensi e faccia prima della lotta. Dicono: vedi come sono sudici, ignoranti, questi maledetti Okies. Pervertiti, maniaci sessuali. Ladri tutti dal primo all’ultimo. È gente che ruba per istinto, perché non ha il senso della proprietà. Ed è giustificata, se vogliamo, quest’ultima accusa; perché come potrebbe, chi nulla possiede, avere la coscienza angosciosa del possesso? E dicono: vedi come son lerci, questi maledetti Okies; ci appestano tutto il paese. Nelle nostre scuole non ce li vogliamo, perdio. Sono degli stranieri. Ti piacerebbe veder tua sorella parlare con uno di questi pezzenti? E così le popolazioni locali si foggiano un carattere improntato a sentimenti di barbarie. Formano squadre e centurie, e le armano di clave, di gas, di fucili. Il paese è nostro. Guai, se lasciamo questi maledetti Okies prenderci la mano. E gli uomini che vengono armati non sono proprietari, ma si persuadono di esserlo; gli impiegatucci che maneggiano le armi non possiedono nulla, e i piccoli commercianti che brandiscono le clave possiedono solo debiti. Ma il debito è pur qualche cosa, l’impiego è pur qualche cosa. L’impiegatuccio pensa: io guadagno quindici dollari la settimana; mettiamo che un maledetto Okie si contenti di dodici, cosa succede? E il piccolo commerciante pensa: come faccio a sostenere la concorrenza di chi non ha debiti? E i nomadi defluiscono lungo le strade, e la loro indigenza e la loro fame sono visibili nei loro occhi. Non hanno sistema, non ragionano. Dove c’è lavoro per uno, accorrono in cento. Se quell’uno guadagna trenta cents, io mi contento di venticinque. Se quello ne prende venticinque, io lo faccio per venti. No, prendete me, io ho fame, posso farlo per quindici. Io ho bambini, ho i bambini che han fame! io lavoro per niente; per il solo mantenimento. Li vedeste, i miei bambini! Pustole in tutto il corpo, deboli che non stanno in piedi. Mi lasciate portar via un po’ di frutta, di quella a terra, abbattuta dal vento, e mi date un po’ di carne per fare il brodo ai miei bambini, e io non chiedo altro. E questo, per taluno, è un bene, perché fa calar le paghe mantenendo invariati i prezzi. I grandi proprietari giubilano, e fanno stampare altre migliaia di prospettini di propaganda per attirare altre ondate di straccioni. E le paghe continuano a calare, e i prezzi restano invariati. Così tra poco riavremo finalmente la schiavitù. E le strade sono affollate di gente avida di lavoro, ma avida al punto da esser disposta ad assassinare pur di trovarne. E le banche e le società si scavano la fossa con le proprie mani, ma non lo sanno. I campi sono fecondi, e sulle strade circola l’umanità affamata. I granai sono pieni, e i bimbi dei poveri crescono rachitici e pieni di pustole. Le grandi società non sanno che la linea di demarcazione tra fame e furore è sottile come un capello. E il denaro che potrebbe andare in salari va in gas, in esplosivi, in fucili, in spie, in polizie e in liste nere. Sulle strade la gente formicola in cerca di pane e lavoro, e in seno ad essa serpeggia il furore, e fermenta.

I Joad finiscono in un campo governativo, pulito, sicuro, addirittura autogestito. Tom riesce a trovare lavoro, per qualche giorno. C’è una scena struggente, lui con il piccone in mano che se lo stringe al petto, come se fosse la fidanzata, e dice “che bellezza”. Perché quando sei stato tanto tempo senza lavoro, un piccone è la cosa più bella del mondo perché con quello ti riprendi onore, senso di te stesso, la possibilità di aiutare la tua famiglia.

Ma dura poco, gli altri non trovano lavoro e dopo un mese la mamma li fa montare tutti sul camion per andare da qualche altra parte, non importa se meno bella e pulita, purché ci sia lavoro, e possibilità di mangiare. E dopo un po’ lo trovano, è un altro frutteto. Li fanno fermare in una delle tante casupole di cemento numerate. È veramente un posto tremendo, sporco, puzza, ma per un po’ c’è lavoro e allora va bene, va bene perché facendosi un mazzo bestiale tutti quanti alla fine della giornata riescono a raccogliere quei pochi soldi che gli permettono di comprare da mangiare per la sera – mica fare la scorta, giusto la cena. Danno quei soldi alla mamma e la mamma va al negozio dell’accampamento, perché sono lontani dalla città.

  • Melvins (feat. Henry Bogdan, Hank Williams III), Okie From Muskogee

La bottega consisteva in un baraccamento di lamiera ondulata, senza vetrine; la mamma spinse la porta a reticella ed entrò. Dietro al banco stava un ometto completamente calvo, e il suo cranio era d’un bianco azzurrino. Portava mezze maniche protettive sopra la camicia. Stava appoggiato coi gomiti sul banco, quando la mamma entrò.
«Buon giorno,» disse la mamma.
L’ometto la osservò con interesse, e l’arco delle sue sopracciglia si accentuò. «Come state?»
«Ho qui un buono per un dollaro.»
«Potete avere roba per un dollaro,» rispose l’altro, ghignando da furbo. «Sissignora, un dollaro di roba.» Indicò le mensole: «Qualunque cosa.» Si tirò su le mezze maniche.
«Credo che prenderò un po’ di carne, per cominciare.»
«Ne ho di tutte le qualità. Bollito, volete il bollito? Venti cents la libbra, il bollito.»
«Non è un po’ caro? L’ultima volta che ne ho comprato ho pagato quindici.»
«Eh,» ghignò l’ometto, «è caro, e d’altra parte, non è caro. Se andate a prenderlo in paese vi costa cinque litri di benzina. Dimodoché qui non è caro perché risparmiate la benzina.»
La mamma disse con severità: «A voi non è costato cinque litri di benzina per portarlo qui.»
L’altro rise cordialmente: «Voi guardate la cosa da un falso punto di vista. Qui non lo comperiamo, lo vendiamo. Se lo comprassimo, sarebbe un’altra cosa.»
La mamma posò due dita sulle labbra e aggrottò la fronte.
«Mi sembra tutto grasso e nervi.»
«Non garantisco che sia tenero,» disse l’ometto, «non garantisco nemmeno che io sarei capace di mangiarlo; ma ci son tante altre cose che non garantirei.»
La mamma gli scoccò un’occhiata feroce ma si contenne.
«Non avete della carne meno cara?»
«Collo. Dieci cents la libbra.»
«Ma è tutt’osso.»
«Sicuro. Tutt’osso, ottimo per fare il brodo.»
«Costolette ne avete?»
«Costolette sì. Venticinque la libbra.»
«Dovrò rinunciare alla carne,» disse la mamma, «ma vogliono carne, si son raccomandati.»
«Tutti quanti vogliono la carne. Quel bollito però è bello, poco osso, niente da buttar via.»
«Quanto… quanto viene il filetto?»
«Oh, il filetto! Adesso andate nel raffinato. Roba da pranzo di Natale. Roba da Giorno del Ringraziamento. Trentacinque la libbra. Venderei il fagiano meno caro, se ne avessi.»
La mamma sospirò.
«Datemi due libbre di bollito.»
«Pronto.»
Mise la carne pallida su un pezzo di carta oleata.
«Altro?»
«Be’, del pane.»
«Ecco qua. Pagnotta grossa, quindici cents.»
«Quella è da dodici!»
«Infatti, in paese è da dodici, ma ci sono i cinque litri di benzina. Altro? Patate?»
«Patate, sì.»
«Cinque libbre per venticinque cents.»
La mamma si mosse torva verso di lui.
«Questo è troppo. So benissimo cosa costano in paese.»
«E allora andate a comprarle in paese.»
La mamma si guardò le nocche.
«Ditemi un po’,» chiese sommessa.
«Siete il padrone, qui?»
«No. Impiegato.»
«Che motivo avete di prendere in giro i clienti?»
Continuava a guardarsi le dita. L’ometto non rispose.
«Chi è il padrone del negozio?»
«La Hooper Ranches, società per azioni, signora.»
«È lei che fa i prezzi nel negozio?»
«Sissignora.»
La mamma si decise a guardarlo in faccia, con l’ombra d’un sorriso.
«E cos’ho di ridicolo, io, che sentite il bisogno di prendermi in giro?»
«Non prendo mica in giro.»
Ma l’ometto aveva vergogna. La mamma non insisté: «Allora, carne quaranta, pane quindici, patate venticinque. Fa ottanta. Caffè, quanto?»
«Venti cents il meno caro.»
«E così sfuma un dollaro. Sette persone al lavoro, per guadagnarsi questa cena.»
Stava considerando il rovescio della mano.
«Su, incartate,» disse, con un fare secco.
«Sissignora, grazie.»
Incartò le patate con la maggior cura che poté, e i suoi occhi sbigottiti andavano dal pacchetto al viso della mamma e viceversa. Ella lo osservava, sempre col suo sorriso appena accentuato.
«Com’è che avete accettato quest’impiego?»
«Bisogna pur mangiare,» cominciò l’ometto, ma subito cambiò tono, e aggiunse bellicoso: «Ho ben diritto di mangiare, no?»
Spinse verso la mamma i quattro pacchi.
«Carne, patate, pane e caffè. Un dollaro.»
E stese la mano. La mamma gli diede il buono, ed egli andò a registrare il nome e l’importo sul mastro.
«Siamo pari,» disse. La mamma prese i pacchi.
«Oh, sentite una cosa. Ci manca lo zucchero per il caffè, e Tom mio figlio lo vuole. Se date un’occhiata fuori, li vedete tutti lì al lavoro. Datemi lo zucchero e vi porto il buono più tardi.»
L’ometto guardò altrove. Il più lontano possibile, dalla mamma. Poi disse a voce sommessa: «Non posso. È contro le regole. Potrei anche rimetterci il posto.»
«Ma vi dico che stanno lavorando, fin da ora si son già guadagnati altri dieci cents. Datemi dieci cents di zucchero, Tom s’è raccomandato tanto.»
«Impossibile, signora, mi spiace. È contro le regole. Niente buono, niente merce. Ordini precisi del direttore, non fa altro che ripeterli. Se mi pescano mi mandano via. E mi pescano certo. Non posso.»
«Per dieci cents?»
«Anche per uno, signora.»
Ora guardava la mamma con occhi imploranti. E d’un tratto perdé la paura. Tolse di tasca un diecino e lo incassò nel registratore, poi prese un sacchetto di sotto al banco, lo aprì, pescò dentro col cucchiaio di legno e misurò un etto di zucchero sulla bilancia. Lo incartò e porgendo il pacchetto alla mamma disse: «Ora tutto è in regola. Mi portate il buono e io mi riprendo il mio diecino.»
La mamma lo guardò intenta, lo ringraziò, prese la roba e s’avviò all’uscita, ma prima d’uscire si voltò e disse: «Imparo tutti i giorni che era proprio vero quel che diceva il nonno: in caso di bisogno, rivolgersi solo alla povera gente, mai ai ricchi.» Poi uscì.
L’ometto si appoggiò coi gomiti al banco e restò a guardarla allontanarsi. Un gatto giallo saltò sul banco e venne a strofinarsi contro le sue braccia, e l’ometto lo carezzò e se lo avvicinò alla guancia. Il gatto ronfava di piacere e dimenava la coda.

  • Kris Kristofferson, Here Comes That Rainbow Again

Non si può dire che le cose vanno bene, però un po’ meglio sì. Fino a quando non ritrovano Casy, che è uscito di prigione ed è diventato una specie di sindacalista dei migranti. C’è un’altra rissa, il clima è teso in tutto lo stato, Casy viene ammazzato e Tom ammazza l’uomo che ha ammazzato Casy. E così deve scappare, abbandonare la famiglia per non darle altri problemi, ma via lui se ne va una dei due pilastri sui quali si teneva in piedi la baracca, e rimane solo Ma’, Ma’ Joad. Si rimettono nuovamente in strada, fino ad arrivare in quello che sarà il loro ultimo campo, dove si fermano per raccogliere cotone. Li mettono ad abitare dentro un vecchio vagone ferroviario, che dividono con una famiglia, i Wainwright, che hanno una figlia che diventerà la fidanzata di Al. Riescono a lavorare, un po’; riescono a mangiare, un po’. A un certo punto, quando ormai hanno perso molti pezzi, perché hanno perso i due nonni, e Connie, e Casy, e Tom, ma tutto sommato andrebbe anche benino, inizia a piovere. E non smette più.

Mentre fuori l’acqua sale e gli uomini si raccolgono per scavare un argine di difesa, anche se sfiniti dalla fatica e dalla fame, Rosa Tea inizia il travaglio.

Il bambino nasce morto. Non nasce, non so, non so come si dice. Ma, insomma, quando il padre rientra nel vagone per avere notizie vede la figlia che dorme, e allora chiede alla moglie come sta e quella senza alzare gli occhi risponde “bene, credo”. Allora la signora Wainwright si alza, va verso di lui, e lo prende sotto braccio e lo porta in un angolo, e in quell’angolo c’è una cassetta di legno per le mele, e su quella cassetta di legno c’è il cadaverino del bimbo, appoggiato su un giornale piegato. “Non è nemmeno riuscito a respirare,” gli dice piano; “non ha avuto il tempo di vivere”. Il padre non dice nulla, si volta verso il fratello che è lì appoggiato a una parete, che piange, e allora gli dice “abbiamo tutti da fare qui, non vorresti andare a seppellire il bambino?”. E il fratello prima dice no, che non se la sente, poi si convince e prende la cassetta con il bambino morto appoggiato sopra e un badile, esce tenendo la cassetta alta mentre lui ha l’acqua fino alla cintola, arriva vicino alla strada, appoggia il badile e invece di scavare una piccola fossa dove mettere dentro il cadavere del bambino appoggia la cassetta sull’acqua e prima di farla scivolare, portata via dalla corrente, dice con una specie di tono feroce “Va’, naviga e vendicaci! Raccontalo a tutti. Marcisci! Solo così potrai farti sentire.”
E poi torna al vagone, mentre la cassetta e il cadavere del bambino scompaiono.

Poi l’acqua sale ancora, e ancora, e finisce per spazzare tutto, e ancora una volta è la mamma a prendere in mano le cose. “Via tutti di qui, Rosa Tea adesso dobbiamo metterla all’asciutto”, il padre le dice “ma dove vai, guarda che disastro” e lei “andiamo via, andiamo a cercare un posto asciutto” e li trascina letteralmente fuori. “Dove andiamo?” chiede il padre, “non lo so,” risponde lei. Camminano, vanno avanti senza sapere bene dove, il padre si tiene Rosa Tea sulle spalle, ci sono i bambini dietro che a fatica provano a seguirli, camminano, camminano fino a quando non vedono un fienile su una piccola collinetta, al riparo dall’acqua. “Là, andiamo là,” dice la mamma.

La mamma disse: «Forse c’è del fieno, dentro. Ecco qui la porta.»
La spinse, e la porta si aprì stridendo sui cardini.
«Sì, c’è fieno,» gridò, «entriamo.»
La mamma guardò, e distinse due figure nella penombra: un uomo sdraiato sulla schiena, e accanto a lui un ragazzo seduto, che guardava i nuovi venuti con occhi spalancati.
Vedendosi scoperto, il ragazzo si alzò e venne incontro alla mamma e con voce rauca le domandò: «Siete voi i padroni?»
«No, siamo venuti a ripararci dalla pioggia, abbiamo una malata, potete prestarci una coperta asciutta?»
Il ragazzo tornò nell’angolo e ne riportò una sudicia coperta che tese alla mamma.
«Grazie,» disse la mamma, e accennando con la testa all’uomo sdraiato: «Che cos’ha?»
Il ragazzo rispose, con una voce rauca priva di inflessioni: «Prima era malato, ma adesso muore di fame.»
«Cosa?»
«Muore di fame. S’è preso la febbre nel cotone. Sono sei giorni che non mangia.»
La mamma si trasferì nell’angolo. L’uomo poteva avere una cinquantina d’anni, aveva la faccia smunta, gli occhi spenti e fissi. La mamma domandò al ragazzo: «È tuo babbo?»
«Sì. Diceva che non aveva fame, oppure che aveva già mangiato, e il mangiare me lo dava a me. Adesso, non ha più forza, può appena muoversi.»
La pioggia diminuì d’intensità. L’uomo mosse le labbra e la mamma si chinò e avvicinò l’orecchio e le labbra si mossero di nuovo.
«Certo,» disse la mamma. «Pensiamo noi, state tranquillo, aspettate solo finché ho asciugato mia figlia.»
Tornò da Rosa Tea.
«Su, spogliati,» e tenne la coperta in modo da ripararla dalla vista. E quando Rosa Tea fu nuda, la coprì con la coperta sudicia.
Il ragazzo venne di nuovo al fianco della mamma, e spiegava: «Io non sapevo. Lui diceva sempre che aveva già mangiato e che non aveva fame. Ieri sera sono andato fuori, e ho rotto una vetrina e ho rubato del pane. Gliel’ho fatto mangiare, ma l’ha vomitato tutto, e dopo era più debole di prima. Bisognerebbe dargli del brodo o del latte. Avete denaro per comprare un po’ di latte?»
«Zitto, non ti preoccupare. In qualche modo si provvede.»
D’un tratto il ragazzo gridò: «Ma muore, vi dico! Muore di fame!»
«Zitto,» disse la mamma.
Guardò il babbo e zio John, che stavano in piedi vicino all’uomo malato guardandolo con occhi impotenti. Poi guardò Rosa Tea avviluppata nella coperta, e aspettò d’incontrarne lo sguardo. Allora le due donne si lessero profondamente negli occhi, e Rosa Tea prese a respirare in fretta e affannosamente. Poi disse: «Sì.»
La mamma sorrise: «Ero certa!»
Si guardò le mani, abbandonate in grembo.
Rosa Tea bisbigliò: «Fai… fai andar via tutti?» e la mamma la rassicurò con un cenno del capo.
Ora il suono della pioggia sul tetto era soltanto un fruscio. La mamma si sporse in avanti, allontanò con la mano una ciocca di capelli dalla fronte della figlia e le dette un bacio, poi si raddrizzò e ordinò: «Andate fuori un momento sotto la tettoia, voialtri, tutti.»
Ruth aprì la bocca per parlare e la mamma la zittì.
«Silenzio, fuori!»
Li sospinse fuori, anche il ragazzo, e uscì anch’essa per ultima chiudendosi alle spalle la porta cigolante.
Per un minuto Rosa Tea continuò a sedere nel silenzio frusciante del fienile. Poi si alzò faticosamente in piedi aggiustandosi la coperta attorno al corpo, si diresse a passi lenti verso l’angolo e stette qualche secondo a contemplare la faccia smunta e gli occhi fissi, allucinati. Poi lentamente si sdraiò accanto a lui.
L’uomo scosse lentamente la testa in segno di rifiuto. Rosa Tea sollevò un lembo della coperta e si denudò il petto.
«Su, prendete,» disse.
Gli si fece più vicino e gli passò una mano sotto la testa.
«Qui, qui, così.»
Con la mano gli sosteneva la testa e le sue dita lo carezzavano delicatamente tra i capelli. Ella si guardava attorno, e le sue labbra sorridevano, misteriosamente.

  • Rage Against The Machine, The Ghost of Tom Joad

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232 Celsius (circa), quinta puntata; seconda parte, dove Marco Manicardi intervista Ginevra Lamberti.

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«Ci sono determinate questioni che, perseguitandoci in vita, lo fanno anche in morte. Come le distanze, le tempistiche, i soldi, la densità di popolazione. In ogni caso e qualsiasi cosa accada, appare evidente che qualcuno deve pur occuparsene»

Così recita la quarta di copertina di Perché comincio dalla fine, l’ultimo libro di Ginevra Lamberti uscito nel 2019 per Marsilio.
E il risvolto copertina di Perché comincio dalla fine dice che:

Ginevra Lamberti è nata nel 1985 e vive a Venezia. Il suo primo romanzo, La questione più che altro, uscito nel 2015 per nottetempo, è stato pubblicato anche in Francia. Suoi racconti sono stati tradotti in tedesco e in cinese.

Marco Manicardi: Ciao Ginevra, perché hai scritto Perché comincio dalla fine?

Ginevra Lamberti: Allora, ho scritto Perché comincio dalla fine perché non volevo scriverlo. A me, in realtà, scrivere piace più che fare moltissime altre cose, praticamente quasi tutte, però tendo ad avere dei momenti, anche piuttosto dilatati, in cui non mi sovviene la ragione per cui ha senso far le cose. E, in genere, sono momenti in cui non sto troppo bene. Quindi ho scritto Perché comincio dalla fine perché dopo un po’ che scrivo, magari anche di malavoglia, mi torna una certa forma di allegria. Il libro, comunque, parla di morte.

MM: Dove, come e quando l’hai scritto?

GL: Tra gennaio 2018 e maggio 2019, per poi vederlo pubblicato a settembre di quello stesso anno. L’ho scritto prevalentemente a Venezia, città che all’epoca mi ospitava già da quattordici anni buoni. Come narro anche nel libro, era un bel pezzo che lavoravo con i turisti, nel senso di ospitando turisti direttamente in casa, con tutte le questioni di pulizie, emergenze, assurdità e mancanze di spazi che ne derivano. Convivendo con il mio compagno, va da sé che non avevo una stanza tutta per me, nessuno dei due ce l’aveva. Anche il bagno era condiviso con centomila sconosciuti. Non avevo neanche orari di inizio e fine turno, momenti libero che potessi prefissare. Dunque, Perché comincio dalla fine è stato scritto dove capitava e quando capitava, dove e quando potevo, come… non è troppo chiaro neanche a me.

MM: E la domanda importante: è bello?

GL: È uno che ascolta.

  • Kristin Hersh (feat. Michael Stipe), Your Ghost

Un pezzetto di Perché comincio dalla fine dice così:

— Ginevra Lamberti legge un pezzetto di Perché comincio dalla fine —

  • Vic Chesnutt, Flirted With You All My Life

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Capitano Beatty: Venga signora, dobbiamo bruciare la casa.
La donna-libro: No.
Capitano Beatty: Che cosa vuol fare, la martire?
La donna-libro: Io voglio morire come sono vissuta.
Capitano Beatty: Ah, l’ha letto in qualche libro. Senta, non glielo chiederò di nuovo, se ne vuole andare?
La donna-libro: Questi libri erano vivi, parlavano con me.

Capitano Beatty: Cominciate!

(Fahrenheit 451; François Truffaut, 1966)

E questa era la quinta puntata di 232 Celsius (circa), dove Sergio Pilu ha raccontato e letto la seconda parte di Furore, un libro del 1939 di John Steinbeck, e io, che sono Marco Manicardi, ho intervistato Ginevra Lamberti su un libro del 2019 che si chiama Perché comincio dalla fine.

Le canzoni che avete ascoltato erano, nell’ordine:

  • Books Are Burning, degli XTC, da un disco che si chiama Nonsuch del 1992, che era la sigla iniziale del programma.
  • Okie From Muskogee, un pezzo un po’ ambiguo di Merle Haggard, rifatto dai Melvins insieme ad Hank Williams nell’album The Crybaby del 2000
  • Here Comes That Rainbow Again, di Kris Kristofferson da The Winning Hand del 1982
  • e poi The Ghost of Tom Joad, di Bruce Springsteen, fatta dai Rage Against The Machine in un disco che si chiama Renegades del 2000 (anche questa non potevamo non metterla, dopo aver messo quella di Springteen nella scorsa puntata)
  • Your Ghost, di Kristin Hersh con Michael Stipe, da Hips and Maker del 1993
  • e Flirted With You All My Life, di Vic Chesnutt da un disco che si chiama At the Cut del 2008
  • la sigla finale, ora in sottofondo, è Wrapped Up In Books dei Belle and Sebastian, da Dear Catastrophe Waitress del 2003

Ad accompagnare le letture, infine, c’erano gli ultimi tre movimenti della Sinfonia n.1, Oceans, di Ezio Bosso, eseguita nel 2012 dalla Filarmonica 900 del Teatro Regio Torino e diretta dallo stesso Bosso.

232 Celsious (circa), nelle persone di Sergio Pilu e Marco Manicardi, ringrazia Caterina Imbeni per la consulenza musicale, e Andrea Bentivoglio, il peraltro direttore artistico di Radio Sverso, per la disponibilità.

E tornerà, molto probabilmente, con quella che potrebbe essere l’ultima puntata della stagione, la settimana prossima, stesso giorno, stessa ora, se va tutto bene.

A presto.
Ciao.


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