Il mio primo concerto

[E oggi Federico Guglielmi mi ha fatto tornare in mente di quella volta, nel 2013, in cui Francesco Farabegli aveva chiesto all’internet di raccontagli il primo concerto. Doveva nascerne un ebook, poi però non era successo. Così va la vita.
Comunque, ho ritrovato il pezzo che gli avevo mandato e adesso lo metto qui sotto, con qualche frase corretta e la consecutio temporum sistemata – credo – perché sono fatto così.]

«Stasera andiamo a vedere un concerto,» mi aveva detto mio padre, una sera di più di vent’anni fa, verso la fine degli anni ’80. La frase non era neanche tanto strana, ma per me che avevo una decina d’anni ed ero venuto su in una casa dove non c’era neanche un libro e neanche un disco, e oltretutto le uniche persone che avevo visto suonare dal vivo erano quelle della banda del paese, quella frase era abbastanza insolita da farmi rimanere lì a bocca aperta a prendere le mosche che passavano. E le zanzare, dato che eravamo in estate. «Suona il gruppo del fratello dei nostri vicini» aveva continuato mio padre, «hai presente Carletti, il vigile?»
Avevo presente. Cioè, avevo presente Carletti, il vigile. Suo fratello non sapevo chi fosse.

Quindi, appena venuta sera, con mia mamma e mio papà (mia sorella non mi ricordo, se era già nata era molto piccola, un anno o due al massimo) eravamo andati a piedi per manina al Parco della Resistenza, che l’avevano appena finito di costruire e ci avevano messo una fontana con un arcobaleno di cemento al centro, una pista di pattinaggio di cemento e una tribuna di cemento a forma di anfiteatro molto alta e molto pericolosa, dove di solito io, Gabriele e Lucio andavamo a provare a romperci l’osso del collo al pomeriggio. Il Parco della Resistenza non lo conosceva quasi nessuno con quel nome lì, lo chiamavano tutti La Taverna, per via del bar Taverna, un circolo ARCI che c’era lì dentro e dove i vecchi andavano a giocare a bocce, a briscola, a scala quaranta e a pinnacolo, e i giovani a comprare sottoprezzo dai fruttini alle birre medie, a seconda dell’età.

Quella sera, al Parco della Resistenza, c’era praticamente tutto il paese, mancavano solo quelli che erano al mare o in montagna, ma secondo me qualcuno era tornato a casa dalle ferie apposta, perché nel paese non succedeva mai niente da anni e una volta che c’era qualcosa non ci si poteva permettere di rimanere indietro. Noi, come d’abitudine consolidata nella famiglia Manicardi in rapporto agli eventi mondani, eravamo andati là che ci si vedeva ancora, quindi eravamo riusciti a prendere i posti centrali sulla tribuna-anfiteatro di cemento, mentre delle persone sulla pista di pattinaggio di cemento lì davanti stavano trafficando con gli strumenti musicali e soprattutto con cavi e i microfoni. Ogni tanto dicevano «Un-due-tre-sa-sa.» (Quasi trent’anni e centomila concerti dopo non ho ancora ben capito perché si dice «sa-sa»).

All’imbrunire, l’anfiteatro di cemento era pieno da scoppiare, dalle casse usciva una musica che non mi ricordo, gli strumenti e i cavi erano tutti posizionati e immobili sul palco, molta gente non trovava posto per sedersi e cominciava ad affollare il bordo della pista di pattinaggio di cemento. Faceva un caldo birichino e avevo chiesto a mia mamma se potevo andare alla Taverna a comprare un ghiacciolo. Lei aveva tirato fuori cinquecento lire e mi aveva detto di prenderne anche uno al limone per lei e uno alla menta per mio padre.
E io avevo preso i soldi ed ero scappato al bar Taverna.

Dieci minuti dopo, stavo uscendo dalla Taverna con un ghiacciolo all’amarena già scartato, mezzo in mano e mezzo in bocca, e due ghiaccioli incartati nell’altra mano. Volevo fare presto a portarli ai miei perché c’era caldissimo e avevo paura che si sciogliessero. Mi stavo facendo strada tra la gente e, per caso, quando ero passato di fianco al bagno degli uomini, avevo preso contro a un signore molto alto, con degli occhialini tondi e una barba bianca molto lunga, che mi aveva fatto cascare i ghiaccioli incartati che avevo in mano.
Mi aveva subito chiesto scusa. Mi aveva aiutato a raccoglierli e, mentre io avevo ancora mezzo in bocca il mio ghiacciolo all’amarena, mi aveva dato una scompigliata ai capelli, sorridendo, poi mi aveva salutato ed era andato via.
Mi ero chiesto se per caso non fosse Babbo Natale, anche se ero venuto su in una casa dove Babbo Natale non era mai esistito.

Poi, dopo, l’avevo visto salire sul palco. Aveva cantato per due ore, ogni tanto parlava in dialetto, e io avevo ascoltato tutto il concerto, il mio primo concerto, senza dire una parola.

Quel signore molto alto, con gli occhialini tondi e la barba bianca molto lunga, era morto pochi anni dopo. Nell’ottobre del 1992 avevo tredici anni e ascoltavo già i Litfiba, i Nirvana, i Guns’n’Roses e soprattutto gli Iron Maiden. Ma ogni tanto, nella mia cameretta di via Salvador Allende a Novi di Modena, chiudendo la porta, col volume non troppo alto, ché non sentissero i miei amici se per caso passavano a cercarmi, senza dir niente a nessuno, mettevo su un disco dei Nomadi. E cantavo. Le cantavo tutte.


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