Una rosa è una rosa è una rosa?

Avrò avuto quattro o cinque anni, ero al secondo o al terz’anno di scuola materna e quando la mamma mi chiedeva una di quelle cose che chiedono i genitori ai figli piccoli per far finta di trattarli come adulti e soprattutto per far scappare da ridere agli altri adulti lì intorno, tipo «Ce l’hai una morosina?», io rispondevo deciso: «Sì che ce l’ho!»
«E chi è? Una tua compagna di classe?»
«Sì, si chiama Marcella,» dicevo fiero.
Non che fossimo davvero morosi, a quattro o cinque anni, figuratevi. Ma c’era la prassi di dire che una bambina era la tua morosa solo perché ti piaceva, e perché dovevi per forza incasellarti in uno stile di vita che ti imponevano gli adulti: sei un maschio di quattro o cinque anni, ti dovranno per forza piacere le femmine.
Il caso ha voluto che mi piacessero le femmine, e c’era una bambina in classe con me che si chiamava Marcella, io dicevo che era la mia morosa e anche Michele diceva che la Marcella era la sua morosa. Entrambi lo sapevamo e ci andava benissimo così, perché era un mondo libero, quello che vivevamo al secondo o al terz’anno della scuola materna dalle suore di Novi di Modena, e anche le suore, incredibile, accettavano senza battere ciglio quell’abbozzo di intenzione di poligamia infantile.
Ma comunque, inevitabilmente, anche al secondo o al terz’anno della scuola materna delle suore di Novi di Modena è arrivato il giorno di San Valentino.

Cosa volete che gliene freghi a un bimbo di quattro o cinque anni di San Valentino?
Invece gliene frega. Gliene frega perché gli adulti, a cominciare dai genitori, cominciano a dire delle cose di quelle che chiedono i genitori ai figli piccoli per far finta di trattarli come adulti e soprattutto per far scappare da ridere agli altri adulti lì intorno, tipo «Allora glielo vuoi fare un regalo alla tua morosina domani che è San Valentino?»
Sarà seguita, immagino, qualche spiegazione sul significato popolare della ricorrenza, o magari me l’avevano già spiegato qualche anno prima, non lo so, ma va bene, facciamo il regalo alla mia morosina, devo aver pensato. E ho portato la mamma in un negozio di giocattoli, uno dei due che c’erano a Novi di Modena all’inizio degli anni 80, siamo entrati, ho scelto un regalo, l’ho fatto impacchettare dal negoziante e, devo dire, se chiudo gli occhi e ripenso a quel momento lì della mia vita e faccio uno sforzo per tornare alle sensazioni del me stesso bambino che compra un regalo di San Valentino per la Marcella, la mia morosina di allora, mia e di Michele, beh, mi sento abbastanza soddisfatto.
E lo ero ancora il giorno dopo, quando sono arrivato con la mamma davanti alla scuola. Mia mamma era una che si svegliava anche presto, ma poi andava a finire che si perdeva a fare delle cose in casa e mi portava sempre a scuola per ultimo, e quel giorno lì, quando sono entrato, c’erano già dentro tutti i miei compagni di classe ed erano ammassati in cerchio nel salone centrale tra le sezioni, dentro al cerchio c’era la Marcella e davanti alla Marcella, me lo ricordo bene, come se fosse adesso, ho proprio la fotografia davanti agli occhi, c’era Michele col braccio teso verso di lei e una rosa rossa in mano.

Ora, a me mi viene naturale, in questo momento, chiedermi delle cose. Delle cose da adulto, intendiamoci. Delle cose tipo: ma come può darsi che a un bambino di quattro o cinque anni gli venga da pensare di regalare una rosa a una bambina per San Valentino?
Qual è il processo mentale precocissimo che porta il romanticismo a vette così adulte che fa dire a un bambino di quattro o cinque anni «Mamma portami dal fioraio che compro una rosa per la Marcella che domani è San Valentino»?
Com’è possibile una cosa del genere?
Una rosa? A quattro o cinque anni?
Saranno mica stati i genitori a inculcargli una di quelle cose che dicono i genitori ai figli piccoli per far finta di trattarli come adulti e soprattutto per far scappare da ridere agli altri adulti lì intorno, tipo «Michele, gliela compriamo una rosa alla tua morosina per San Valentino?»
Una rosa?
UNA ROSA?

Allora io, ecco, ho preso il pacchettino che avevo in mano, che era dentro a una sportina, mi sono girato verso mia mamma, che era lì che guardava Michele dare la sua rosa alla Marcella e sorrideva compiaciuta della scena, e nella sua testa avrà pensato che cosa divertente e buffa questi due bambini che fingono di fare gli adulti.
Io l’ho tirata per la giacca e le ho ridato il mio pacchetto.
Deve forse avermi detto: «Non glielo dai tu il regalo alla Marcella?»
«No, fa lo stesso,» devo forse aver risposto.
E le ho dato la sportina con dentro il mio regalo ancora impacchettato.
Una rosa, pensavo.
Una rosa.
Una fottutissima rosa rossa, penso ancora adesso.
Come potevo anche solo immaginare di competere, io, piccolo stoltarello di quattro o cinque anni al secondo o al terz’anno della scuola materna delle suore di Novi di Modena, come potevo pensare di affrontare Michele e la sua rosa rossa davanti alla Marcella, io, ingenuo, piccolo, stupido, col mio sciocco, anche se non banalissimo, ma comunque sciocco, sciocchissimo cubo di Rubik?

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(è una cosa che posto, linko o rebloggo da qualche parte tutti gli anni; e ogni anno ci cambio una virgola)


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