Si può anche far senza (3)

Per esempio della parola ambaradàn usata così a cuor leggero, e per spiegare meglio il concetto riporto un pezzetto di un libro che si chiama Point Lenana, del 2013, dove Wu Ming 1 e Roberto Santachiara dicono che:

Dal 10 al 19 febbraio [del 1936], durante la battaglia dell’Amba Aradam, l’artiglieria italiana spara 1367 proiettili caricati ad arsine. Al termine della battaglia l’aviazione insegue, mitraglia e bombarda col vescicante le colonne di nemici in ritirata. Lo stesso Badoglio riferirà l’utilizzo, in questa circostanza, di sessanta tonnellate di iprite. Raccontando di questo giorno, il generale Colombini scriverà:

Vidi scene raccapriccianti: la pelle degli etiopici si scioglieva, si rompeva, si sfogliava e veniva via lasciando la piaga aperta. Così era per i guerrieri dell’esercito nemico come per le donne e i bambini (fortunatamente pochi) che vivevano in quei luoghi.

Rossa è la carne viva esposta dall’azione dell’iprite. Come diceva quel divertente stornello? «Se l’abissino è nero, gli cambierem colore».
Dai resoconti e ricordi edulcorati della strage deriverà il termine scherzoso «ambaradàn», che gli italiani useranno per dire baraonda, trambusto, grande confusione.
Ma l’impiego dei gas è soltanto una delle tante atrocità di questa guerra. Fra il dicembre 1935 e il marzo 1936, l’aviazione italiana bombarda ripetutamente ospedali da campo e ambulanze della Croce Rossa. E poi i rastrellamenti, le fucilazioni di massa, le decine di migliaia di capanne (i tucul) incendiate, gli stupri.
Di tutto ciò, nella madrepatria, gli italiani rimangono all’oscuro.


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