O me o te

[Quello che segue è il copincolla di un pezzettino che ho letto sabato sera durante il concerto dei DUEPONTI (in maiuscolo, tutto attaccato) all’ATP di Migliarina; l’avevo scritto la prima volta tanti anni fa (tipo dodici!), ma l’altro giorno l’ho ricicciato un po’ per farlo con la band. Non so se sia bello leggerlo così com’è scritto qui sotto, che io subito dopo aver pubblicato una cosa mi vergogno sempre come un cane di come è scritta, figuriamoci con un pezzo di così tanti anni fa. Però l’altra sera, dal vivo, con la batteria, il basso e due chitarre a fare dei bei saliscendi, oh, secondo me è venuto molto bene. Quindi non lo rifaremo mai più.]

***

Mio nonno, Corrado, quando andavo a una manifestazione, da quelle della scuola contro la Jervolino a quelle della FIOM per il rinnovo del contratto, tutte le volte mi raccontava le stesse due o tre storie. Una è la storia di quando era andato a piedi a Modena per il funerale di alcuni compagni uccisi davanti alle Fonderie, il 9 gennaio del 1950; un’altra era quella di quando era in piazza a Reggio Emilia e aveva sentito degli spari e aveva visto la gente scappare, il 7 luglio del 1960, magari prima o poi racconto anche queste storie. Quella che invece racconto adesso, visto che domani è il Primo Maggio, la Festa dei Lavoratori, è la storia di una sbarra di ferro.

Mio nonno, Corrado, nel primo dopoguerra e poi negli anni 50, non aveva più una gran voglia di fare il contadino. C’era l’Italia da ricostruire e da rimettere in piedi e lui, che era un gran lavoratore, prestava le braccia in giro, dove serviva, come per la bonifica del canale, per esempio. Mi raccontava che, mentre bonificavano, ogni tanto c’erano degli scioperi, e quando arrivavano i celerini, loro si mettevano con le pale e i forconi puntati in avanti: la prima fila in ginocchio, la seconda in piedi, le altre file dietro pronte a sostituire i caduti. Non gliel’aveva insegnato nessuno, a fare così, e visto che erano in gran parte semianalfabeti non lo sapevano mica che erano disposti come i macedoni di Alessandro Magno.
Chissà, forse la tattica militare e la lotta ce le abbiamo tutti in un angolo del cervello, un angolo che pulsa e si risveglia in caso di bisogno. Come usare una spada o qualsiasi altra cosa contundente per colpire. Lo sai fare, quando è ora, non te lo insegna nessuno.

E così, mio nonno, Corrado, dieci anni dopo, negli anni 60, era già un operaio della cooperativa dei muratori che avevano fondato per rifare l’Italia. E adesso che l’Italia era rifatta, c’era da modernizzarla. Loro, gli operai, pensa te che ingenui, l’Italia la volevano moderna ma senza compromessi. E allora scioperavano, continuamente, scioperavano in tutta l’Italia e anche a Novi di Modena, alla cooperativa dei muratori di mio nonno. Scioperavano e scioperavano, e manifestavano, urlavano slogan, si tenevano a braccetto per proteggere i rappresentanti sindacali, nei cortei, lungo la piazza del paese.

Poi arrivava la celere, con le camionette, gli elmetti, le armature, i manganelli, le pistole e tutto il resto.

E loro via, di corsa, sparpagliati per il paesello, una gran foga, un parapiglia, ognuno col suo celerino dietro al culo, il manganello e la pistola puntati alla schiena. Loro, i manifestanti, erano a mani vuote, perché ci credevano ancora che le cose le si potesse cambiare solo alzando la voce. E invece niente, tu alzavi la voce e subito arrivava il celerino con l’elmetto, l’armatura, il manganello e la pistola, e tu via, di corsa. Sempre così.

Anche mio nonno, Corrado, correva anche lui.
Anche lui col suo celerino dietro al culo.

Mio nonno mi raccontava che, mentre correva come un matto, per la paura aveva visto il cortile di una ferramenta e ci si era infilato dentro, e il celerino dietro, ma un po’ distante, perché mio nonno correva veloce ed era il figlio di Archimede, l’uomo più forte del paese.
Poi era arrivato anche il celerino, lì, dentro il cortile della ferramenta. Era entrato per il cancello e si era fermato di colpo, sudava. Davanti a lui c’era mio nonno, Corrado, che si era fermato con le gambe divaricate e ben piantate, e una sbarra di ferro in mano che sarà stata lunga un metro e mezzo, una di quelle sbarre di ferro piene, di quelle che fan male.

O me o te, aveva detto mio nonno, Corrado, al celerino.
O me o te.
Impugnava la sbarra di ferro come una mazza, come una spada.

Deve essersela vista brutta, il celerino. Tirare fuori la pistola e sparare non poteva, o meglio, non se la sentiva, così, da solo, sai te i casini, dopo. Aveva solo il manganello e l’elmetto e l’armatura.
Mio nonno, Corrado, invece, aveva la camicia aperta, sudata, il torso nudo, coi pettorali ereditati da suo padre che pulsavano, le gambe larghe e ben piantate e in mano la sbarra di ferro, come una mazza, come una spada, per far male.

O me o te, diceva.
O me o te.

Era poi scappato via, alla fine, il celerino. Mio nonno, Corrado, aveva tirato fiato, aveva messo giù la sbarra di ferro e si era incamminato verso casa.
Mentre camminava, con la testa bassa e il fiatone per la gran paura, pensava che non lo sapeva mica se avesse avuto il coraggio di spaccargliela, la testa, al celerino. Però, mi raccontava, gli era venuto automatico comportarsi così.
Chissà, forse la tattica militare e la lotta ce le abbiamo tutti in un angolo del cervello, un angolo che pulsa e si risveglia in caso di bisogno. Come usare una sbarra di ferro o qualsiasi altra cosa contundente per colpire. Lo sai fare, quando è ora, non te lo insegna nessuno.

(Mio nonno, Corrado, chissà cosa stava scrivendo. Ciao nonno.)


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