Levi

E in un libro che si chiama La tregua, del 1963, Primo Levi dice che quando arrivarono a Katowice, nella Polonia meridionale, entrò con alcuni altri italiani ex-deportati in un negozio di alimentari, e subito furono trattati con sospetto dalla signora che lo gestiva, ma che appena dissero di essere ebrei di Auschwitz lo sguardo della vecchia si ammorbidì, perfino le rughe sembrarono distendersi. Allora era un’altra faccenda. Li fece passare nel retrobottega, li fece sedere, offerse loro due bicchieri di birra autentica, e senza por tempo in mezzo raccontò con orgoglio la sua storia favolosa: la sua epopea, vicina nel tempo ma già ampiamente trasfigurata in canzone di gesta, affinata e polita da innumerevoli ripetizioni.
La signora era consapevole di Auschwitz, e tutto quanto riguardava Auschwitz la interessava, perché aveva rischiato di andarci. Non era polacca, era tedesca: a suo tempo, teneva bottega a Berlino, con suo marito. A loro, Hitler non era mai piaciuto, e forse erano stati troppo incauti nel lasciar trapelare fra il vicinato queste loro opinioni singolari: nel 1935 suo marito era stato portato via dalla Gestapo, e non ne aveva mai più saputo niente. Era stato un grande dolore, ma mangiare bisogna, e lei aveva continuato nel suo commercio fino al ‘38, quando Hitler, «der Lump», aveva fatto alla radio il famoso discorso in cui dichiarava che voleva fare la guerra.
Allora lei si era indignata e gli aveva scritto. Gli aveva scritto personalmente, «Al Signor Adolf Hitler, Cancelliere del Reich, Berlino», mandandogli una lunga lettera in cui gli consigliava fermamente di non fare la guerra perché troppe persone sarebbero morte, e inoltre gli dimostrava che se l’avesse fatta l’avrebbe perduta, perché la Germania non poteva vincere contro tutto il mondo, e anche un bambino l’avrebbe capito. Aveva firmato con nome, cognome e indirizzo: poi si era messa ad aspettare.
Cinque giorni dopo erano venute le camicie brune, e col pretesto di fare una perquisizione le avevano saccheggiato e sconquassato casa e bottega. Cosa avevano trovato? Nulla, lei non faceva della politica: soltanto la minuta della lettera. Due settimane dopo l’avevano chiamata alla Gestapo. Pensava che l’avrebbero picchiata e spedita in Lager: invece l’avevano trattata con disprezzo sguaiato, le avevano detto che avrebbero dovuto impiccarla, ma si erano convinti che lei era solo «eine alte blö-de Ziege», una vecchia stupida capra, e che per lei la corda sarebbe stata sprecata. Però le avevano ritirata la licenza di commercio e l’avevano espulsa da Berlino.
Aveva vivacchiato in Slesia di borsa nera e di espedienti, finché, secondo le sue previsioni, i tedeschi non avevano perso la guerra. Allora, poiché tutto il vicinato sapeva quello che lei aveva fatto, le autorità polacche non avevano tardato a concederle la licenza per un negozio di commestibili. Così ora viveva in pace, fortificata dal pensiero di quanto migliore sarebbe stato il mondo se i grandi della terra avessero seguito i suoi consigli.


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