Il 15-18 (prologo)

Con il 2018 si è chiuso un ciclo. Non è che lo dica così tanto per dire. Si è proprio chiuso.
Per tre anni e nove mesi siamo stati immersi fino al mento in un turbine di gioie e dolori, quasi mai di breve entità, quasi sempre estremi.

Ora, dato che il ciclo si è chiuso e ci troviamo davanti a un orizzonte di cose da fare, da progettare e da capire, ora che il futuro è tornato a essere sconosciuto, dove può succedere di tutto, può essere più bello, può essere più brutto, può non succedere assolutamente nulla, ma perlomeno non dobbiamo stare in attesa di qualche accadimento annunciato com’era spesso nei tre anni e nove mesi passati, qualcosa per riempire le serate quando il bimbo dorme o i pomeriggi della domenica me la devo pur trovare. Quindi tanto vale che mi rimetta a scrivere qualcosa, e pensavo di farlo su questo blog, che non è mai stato veramente vivo, ma nemmeno veramente morto.

Così, ho anche pensato che, se ci riesco, e non è detto che ci riesca, proverò a raccontare della nostra piccola Grande Guerra privata del 2015-2018, coi suoi caduti, i suoi feriti, le sconfitte e le vittorie. Magari a puntate, che ai muri di testo non siamo più abituati. Non so con quale cadenza, penso settimanale. E negli altri giorni proverò a scrivere delle altre cose, così, come mi vengono in mente, come se fossero ancora gli anni zero della blogsfera.

Intanto partiamo dall’inizio.

Era cominciato tutto il 27 marzo del 2015, il telefono era squillato mentre stavo entrando nella Cappelletta del Duca, quella che una volta era un incrocio pericoloso e adesso è una rotonda ai margini di Cavezzo. Quel giorno lì avevo cercato una strada diversa dalla solita per andare a Mirandola, dove lavoravo, perché il Secchia rischiava di esondare e avevano chiuso la maggior parte dei ponti, ero anche un po’ in ritardo. Dall’altra parte del telefono Caterina, ridendo e ansimando, un po’ imbarazzata, un po’ isterica, mi diceva che le si erano rotte le acque. Ho fatto tutta la rotonda e sono tornato indietro, ho riattaccato e ho chiamato al lavoro dicendo che ci saremmo rivisti qualche giorno dopo, anche se non sapevo quando. Mi hanno fatto gli auguri e mi hanno lasciato tornare a casa.
Appena arrivato, ho trovato la Cate che saltellava per il corridoio con un asciugamano tra le gambe. «Non hai idea di quanta acqua mi è uscita dalla…» mi ha detto agitatissima, mentre cominciavamo a fare su tutta la roba per andare in ospedale a Vladivostok 1 dove avevamo appuntamento.
Poi il telefono era squillato di nuovo, stavolta non era il mio, dall’altra parte un nostro amico ci diceva che il padre della Cate era entrato in ospedale. Non era l’ospedale di Vladivostok e non era per la nascita di suo nipote: era l’ospedale di Carpi, per un’insufficienza respiratoria.

(Continua…?)

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1.^ Uso un nome di fantasia per dire che l’ospedale era un ospedale lontano da Carpi.


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