Generazione NCNP

Mi hanno girato qualche giorno fa un articolo del Messaggero intitolato “Xennial, la generazione nata tra il 1977 e il 1983 è la migliore” dove si prova a dare un nome alla mia generazione, che sta tra la Generazione X (quella di Douglas Coupland) e i Millenial (o Generazione Y, quella di mia sorella), perché si vede che era una questione importantissima da risolvere il prima possibile e il non sapere dove e come inquadrarci avrebbe probabilmente sconvolto l’ordine delle cose, della vita, dell’universo e di tutto quanto.
E, insomma, il professore associato dell’Università di Melbourne Dan Woodman ci chiama Xennial, che sembra il nome di uno psicofarmaco, per dire che siamo vissuti lì a cavallo tra due epoche, che siamo nati senza internet ma abbiamo imparato a usare i socialcosi senza scomporci, che siamo cresciuti coi giochini a cristalli liquidi e abbiamo accettato la PlayStation senza sbatterci, che usavamo il telefono a gettoni con la rotella e abbiamo adottato gli smartphone senza farci dei grossi problemi, eccetera, che siamo in pratica passati in mezzo a due mondi e ci siamo adattati così bene che secondo il professore associato dell’Università di Melbourne Dan Woodman siamo «un’esperienza unica». Dice alla fine che noi Xennial non abbiamo il pessimismo della Generazione X (quella di Douglas Coupland) e nemmeno l’ottimismo dei Millennial (o Generazione Y, quella di mia sorella), ma che siamo anche «il simbolo vivente della capacità di adattamento dell’uomo».

Allora, a proposito dell’unicità dell’esperienza degli Xennial, mi sono ricordato di quel pezzetto che ripete spesso Paolo Nori nei suoi discorsi in pubblico, e che viene da un suo libro che si chiama I malcontenti, del 2010 (è molto bello), dove dice, parlando della sua generazione, che:

quelli che erano nati negli anni venti, e che avevano vent’anni negli anni quaranta, avevan dovuto combattere perché c’era la guerra e servivano dei soldati. Quelli che eran nati negli anni trenta, e avevan vent’anni negli anni cinquanta, avevan dovuto lavorare perché c’era stata la guerra e c’era un paese da ricostruire. Quelli che eran nati negli anni quaranta, e che avevan vent’anni negli anni sessanta, avevan dovuto lavorare anche loro perché c’era il boom economico e una grande richiesta di forza lavoro. Quelli che eran nati negli anni cinquanta, e che avevan vent’anni negli anni settanta, avevan dovuto contestare perché il mondo così com’era stato fino ad allora non era più adatto alla modernità o non so bene a cosa. Poi eravamo arrivati noi, nati negli anni sessanta e che avevamo vent’anni negli anni ottanta e l’unica cosa che dovevamo fare, era stare tranquilli e non rompere troppo i maroni.
Mi sembrava che noi, avevo detto, fossimo stata la prima generazione che, se ci davano un lavoro, non era perché c’era bisogno, ci facevano un favore.

E poi, dopo che era uscito il libro, qualcuno gli aveva chiesto cosa pensava di quelli che erano nati negli anni ‘70, negli anni ‘80 e negli anni ‘90, e lui gli aveva risposto:

mi sembra che anche per loro, la situazione sia identica alla nostra, con una differenza, però, che noi quando lavoravamo c’era questa abitudine, questa convezione che ci pagavano; loro, quando cominciano a lavorare, non li pagano.

Che mi sembra una cosa condivisibilissima, anche se, bisogna dire, a noi Xennial, cioè noi nati tra il 1977 e il 1983 (io sono nato nel 1979), delle volte succede che ci pagano.
Non tantissimo, per carità, ma delle volte succede.

E oltre alle cose descritte sopra, oltre quindi al passaggio dal telefono al telefonino, dall’8086 al Pentium Dual Core, eccetera, ci sono stati anche, per dirne tre o quattro, il crollo del Muro di Berlino, quello dell’Unione Sovietica, quello delle Torri Gemelle, la fine della musica bella e anche Berlusconi.
Per esempio, mi ricordo che quando chiedevo a mio padre cosa volesse dire C.C.C.P., quando lo leggevo sulle canottiere degli atleti ai mondiali o alle olimpiadi, mio padre rispondeva tutte le volte: «Col Cazzo Che Perdiamo!»
Tutte queste cose le abbiamo attraversate perché ci sono volate addosso, ma non abbiamo mai saputo bene come affrontarle, mi sembra, men che meno ci siamo saputi adattare. Le abbiamo prese così, come venivano. Non ci siamo mai chiesti se fosse stato meglio prima o sia meglio adesso. Direi che siamo una generazione che non ha mai preso una decisione.

Allora quello che volevo proporre al professore associato dell’Università di Melbourne Dan Woodman, che si è tanto impegnato per trovare una definizione per la nostra generazione, è che, se proprio dobbiamo trovare un nome a quelli nati tra il 1977 e il 1983, anche se non è obbligatorio, per concordare con la semantica della Generazione X (quella di Douglas Coupland) che è venuta prima di noi e la Generazione Y (o Millenial, quella di mia sorella) che è venuta dopo, io direi di chiamarci Generazione NCNP (o NFNF, se vi piace l’inglese): Né Carne Né Pesce (e l’angoscia non decresce).

Musica:


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2 risposte a Generazione NCNP

  1. Tinni ha detto:

    Dunque: questo post è stato per me una (doppia) folgorazione.
    Innanzitutto, ci terrei a inoltrare ufficiale domanda di (lieve) modifica di datazione al fine di includere anche il mio anno di nascita (84) nella fascia dei NCNP, visto che mi riconosco in pieno in tutto quanto.
    In secondo luogo, il testo del brano musicale allegato fa parte delle mie citazioni standard ogniqualvolta emerga in conversazione l’espressione “né carne né pesce” e MAI nessuno (a parte il mio compagno di classe delle superiori che mi aveva iniziato al culto eliocentrico) fino ad oggi aveva saputo coglierla.
    Quindi: evviva!

    • Marco Manicardi ha detto:

      Molto contento per la cosa degli elii.
      Per l’altra, eh, mi dispiace: 84 = Generazione Y.
      Lo dice l’università di Melbourne, mica io.

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