Coates (2)

E sempre in un libro che si chiama Una lotta meravigliosa, del 2008, Ta-Nehisi Paul Coates racconta un episodio di quando era giovane e andava a scuola a Mondawmin, un quartiere di Baltimora, e che dice così:

[…] Con questi pensieri che mi frullavano per la testa entrai in classe, sperando di uscirne il prima possibile, magari con una scusa. Invece di sedermi al mio posto come tutti gli altri, rimasi in piedi vicino alla porta con un amico a dire stupidaggini. L’insegnante mi chiese di sedermi più volte, finché a un certo punto perse la pazienza e mi rimproverò davanti a tutti. Non ricordo le parole esatte, ma aveva alzato la voce, e non potevo fargliela passare liscia.
Gli afferrai la faccia con forza e gli dissi: «Non urlarmi mai più addosso. Mai. Chiaro?»
Mi ordinò con calma di uscire, poi chiamò la vigilanza. Ero così sovraeccitato dall’ego e dall’idea di me stesso in pubblico che mi misi a urlare anche contro il sorvegliante, così alla fine mi mise le manette e mi portò nel suo ufficio per stilare un rapporto. Fui sospeso con effetto immediato e la minaccia incombente dell’espulsione. Mi dissero di non tornare se non accompagnato da un genitore. Presi il 33 da solo, e mentre tornavo a casa mi resi conto di quello che avevo combinato. Mi ero sempre defilato, ma adesso ero stufo. Quella era la mia affermazione di rispetto, dei confini da non superare. Ma ci sarebbe stato un prezzo da pagare, e mio padre era il mercante che l’avrebbe stabilito. Mi aspettava sulla porta, come al solito a casa nei momenti peggiori. Era con mia madre e Jovett, con un mezzo sorriso di stupore e collera insieme stampato sulla faccia. Quando Jovett lasciò la stanza il primo colpo si abbatté su di me con una forza tale da sbattermi a terra.
Mia madre si mise in mezzo: «Paul! Paul!»
Lui la spinse via: «Donna, lasciami stare».
Da lì cominciò a darmele con una forza sovrumana, con la potenza trasmessa di generazione in generazione da madri e padri che cercano di proteggere i figli dalla frusta del padrone, dal linciaggio, dall’impiccagione, dagli sceriffi grassi pronti a darti fuoco. Mio padre me le dava con la forza di un’armata di schiavi in rivolta, come se avesse paura che il mondo lo stesse mettendo all’angolo, come se dovesse salvarmi la vita. Mentre ero in camera mia a piangere tutte le mie lacrime i miei tennero una breve consultazione in cucina. C’era solo una cosa da dire: «Cheryl, preferisci che lo faccia io o la polizia?»
Più tardi parlai con mia madre, seduti in cucina. Cercò di spiegarmi cosa sentiva, ma si mise a piangere quasi subito. Sapeva che non mi rendevo conto di quanto fossi vicino all’abisso, con che facilità ragazzi come me venivano cancellati dalla faccia della Terra senza ragione, in modi assurdi. Un attimo prima sei lì a lanciare palle di neve sui taxi che passano, a scherzare davanti a un 7-Eleven o a correre per la strada, e subito dopo eccoti circondato da poliziotti in posizione da tiro, pronti a sparare al minimo movimento. Per tutta la vita sarebbe stato lo stesso, sempre a un passo dall’essere ammazzato, sempre con un coltello puntato alla gola.


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