232 Celsius (circa) s1e06 – il podcast (e la trascrizione)

E questo è il podcast della sesta – e ultima, per ora – puntata di 232 Celsius (circa), una trasmissione sui libri, andata in onda alle 18 di venerdì 19 marzo su Radio Sverso. Dura un’ora (circa) ed è diviso in due parti: nella prima Sergio Pilu parla di un libro che si chiama Diario da Belgrado, del 2000, di Biljana Srbljanović; e nella seconda parte ci sono io che intervisto Sergio Pilu su un libro che si chiama Il tunnel: Mustafa, mia mamma, un viaggio in Bosnia, del 2020.

( Spotify, su Google Podcast, in mp3)

E quella che segue è una specie di trascrizione della puntata, fedele al 98%, diciamo (e in mezzo ci sono anche tutte le canzoni che abbiamo trasmesso):

Stammi a sentire, Montag: a tutti noi una volta nella carriera viene la curiosità di sapere che cosa c’è in questi libri, ci viene come una specie di smania, vero? Beh, dai retta a me, Montag: non c’è niente lì. I libri non hanno niente da dire! Guarda, queste sono opere di fantasia e parlano di gente che non è mai esistita. I pazzi che li leggono diventano insoddisfatti, cominciano a desiderare di vivere in modi diversi, il che non è mai possibile.

(Fahrenheit 451; François Truffaut, 1966)

  • XTC, Books Are Burning (sigla)

Introduzione di Andrea Bentivoglio:

La città fantasma è viva. È viva nel tappeto di libri che copre l’intero pavimento di un’aula scolastica (è così viva che sembra di sentirne il dolore: avete mai camminato sopra centinaia di libri? Provate a farlo. Provate a prendere tutti i libri che avete in casa e gettarli per terra alla rinfusa coprendo le piastrelle che pulite una volta alla settimana, e poi camminateci sopra, e sentite come la carta risponde al vostro peso, come se vi stesse dicendo mi fai male; provate a farlo, e avvertite quella sensazione di colpa e ingiustizia per come state trattando quegli oggetti nei quali la nostra civiltà ha investito tutta se stessa per aiutarsi a vicenda e restare a galla).

232 Celsius (circa) è la trasmissione che Radio Sverso dedica ai libri. Quelli famosi e quelli meno, quelli scritti da gente morta e sepolta e quelli pubblicati da gente viva e vegeta. Perché a noi i libri piacciono, ci hanno spesso cambiato la vita, certamente ce l’hanno resa migliore. Quindi, visto che vi vogliamo bene, cerchiamo di rendere migliore anche la vostra.

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232 Celsius (circa): un programma di Sergio Pilu e Marco Manicardi.

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232 Celsius (circa), sesta puntata; prima parte, dove Sergio Pilu racconta e legge Diario da Belgrado, di Biljana Srbljanović.

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Biljana Srbljanovic aveva ventotto anni quando, alla fine dell’aprile del 1999, iniziò a tenere un diario. Era una giovane donna serba, una drammaturga conosciuta e stimata per i suoi lavori teatrali, e in quella primavera del 1999 iniziò a raccontare la sua esperienza di guerra. All’epoca internet era ancora una cosa poco più veloce e certamente molto meno stabile del telegrafo, ma era il mezzo migliore per far uscire quelle pagine dalla sua casa di Belgrado. Quelli che vi leggo pezzi del diario di Biljana, scritti durante i bombardamenti della NATO su Belgrado, pubblicati prima a puntate su Repubblica e poi raccolti in un libro che in Italia venne edito da Dalai Editore. Sono divisi in tre parti: Belgrado sotto le bombe, poi in mezzo la parentesi di un breve viaggio all’estero, e la fine della guerra. Parlano, tutti, di guerra, ma anche di pace, una roba che non è una bella bandiera con i colori dell’arcobaleno piantata in mezzo ai campi di grano intorno al Mulino Bianco. Qui la pace è anche, e forse soprattutto, una cosa difficile, sporca e imperfetta. Come tutti noi, diciamo.

Prima parte: Belgrado sotto le bombe.

29 APRILE 1999 – Anche io, scrivendo questo diario di “guerra”, ho cambiato le regole: invece di scrivere di sera, come è abituale, descrivendo le cose alla fine del giorno, io scrivo il mio diario di buon’ora, dopo un’altra notte di sonno interrotto, dall’ascolto delle esplosioni. Qui le cose più importanti accadono di notte: quando le sirene d’allarme segnano l’arrivo del buio e degli aerei della Nato, la “festa” inizia.
Ascoltando le esplosioni, immaginiamo se il boato è una bomba oppure un missile, se ce ne sarà una sola oppure tante; e poi: cosa è stato colpito? Quando mi sveglio con un sobbalzo, mezza addormentata, ma con l’orecchio già allenato a questi suoni, pronuncio ad alta voce il luogo dove credo sia caduta la bomba: “Il ponte!”, borbotto fra i denti, dopo una serie d’esplosioni forti e a catena. “Stato maggiore”, risponde il mio fidanzato, quasi dormendo. Poi continuiamo a dormire fino alla prossima occasione di scommessa. “È qui vicino”, rispondo dopo un forte boato. “Forse hanno colpito un’altra volta la televisione”, dice lui, aggiungendo sempre la stessa frase: “Dormi, non avere paura”.
È così per tutta la notte. Ci svegliamo la mattina presto e, prima di lavarci, accendiamo la tv. Ascoltiamo le notizie su cosa è stato colpito la notte; io raccolgo le informazioni per il mio diario. Qualche volta vinco io la scommessa, qualche volta lui, ma più spesso nessuno. Chi non vince mai sono le persone che abitano accanto ai luoghi presi di mira. Perché tutti, benché ormai si sia tutti un po’ incoscienti e privi di buonsenso, non scommettono mai sui luoghi dove vivono. Pensiamo sempre che il colpo arrivi altrove, lontano da noi. E tutti dicono le stesse frasi: “Dormi, non avere paura”, “non succederà qui vicino”, “quanto tempo rimane perché faccia giorno, perché finisca l’attacco?”; siamo qui a contare le ore, dormendo e sognando la fine.

3 MAGGIO 1999 – La notte scorsa, la Nato, sicuramente per ragioni umanitarie, ha lasciato senza corrente elettrica due terzi della Serbia. Subito dopo, nelle varie parti del paese, anche gli acquedotti, nemici giurati dell’uomo “giusto”, hanno smesso di funzionare. Con questa azione militare, silenziosamente, perché nessuno ha sentito l’esplosione, e in modo invisibile, perché nessuno ha visto le fiamme, il mio paese e la mia città hanno vissuto il blackout.
A lume di candela riempio d’acqua la vasca del bagno e penso: ma che cosa si aspettano da me, cittadina ordinaria di questo paese contro il quale la Nato stasera ha reagito così brutalmente? Lavandomi la faccia con l’acqua fredda, mi dico che forse i signori della Nato si immaginano che domani io organizzi un colpo di Stato. Riempiendo le pentole d’acqua per il futuro uso del water, penso che forse dovrei acquistare armi per me e per i miei parenti, scendere in piazza e fare la rivoluzione.
“Fa abbastanza caldo,” dice il mio fidanzato, “ci laveremo un po’ meno”. “Chi sa se potremo fare la doccia”, gli rispondo, e mi viene in mente ciò che mi disse un amico che aveva vissuto a Sarajevo sotto le bombe: ti puoi lavare tutto il corpo con un litro e mezzo d’acqua. Basta una bottiglia di plastica piena d’acqua (che una volta era piena di Coca Cola), la metti fra le ginocchia e le stringi, poi prendi il sapone. Se ti pieghi abbastanza, sotto la pressione esercitata dalle ginocchia, l’acqua può arrivare fin al viso.
Un litro e mezzo d’acqua al giorno. Ma noi siamo in due. La mia vasca da bagno contiene trenta litri. Basta saltare qualche giorno e, prima di avere i pidocchi, dovrebbe passare quasi un mese. Poi spengo la candela, rasserenata perché il fatto di stare al buio aiuterà sicuramente i profughi a non abbandonare il Kosovo. Non sapendo cosa fare di meglio, mi addormento.

10 MAGGIO 1999 – Oggi i Belgradesi si sono svegliati più preoccupati del solito. Come sempre, mezzo addormentati, avevano trascorso la notte ascoltando continuamente le notizie per seguire l’evolversi della situazione. Ma non c’era niente da sentire e niente da seguire. La notte è trascorsa senza esplosioni, senza oscuramento, senza scomparsa della luce elettrica, e senza, cosa straordinaria, sirene d’allarme. Dopo sette settimane di bombardamenti a Belgrado, la notte scorsa è stata la prima senza l’allarme della contraerea. E ciò è accaduto proprio adesso che ci siamo abituati alla guerra! Questa mattina, si sono tutti chiesti che cosa è successo, stupiti e preoccupati per il destino dei cacciabombardieri della Nato. Tremavamo tutti di ansia, per le novità che portava questa nuova giornata.
E ciò avviene proprio adesso, adesso che ci siamo abituati a chiudere le finestre e le persiane appena arriva il buio. Proprio adesso che nessuno esce più di casa, a meno che non gliene importi tanto della vita. Proprio adesso che, posso confessarlo, ci siamo abituati a vivere senza corrente elettrica e acqua corrente, semplici privilegi della nostra civiltà, e di cui non sentiamo più la mancanza. Proprio adesso che l’inquietudine di quello che poteva succedere nel nostro futuro è stata scacciata via per sempre dalle bombe. Adesso che tutti sappiamo con certezza che cosa ci aspetta: un disastro sicuro. Proprio adesso devono fermarsi? Quando dico “loro”, penso naturalmente a quelli che ci bombardano, ma anche a quelli che hanno causato questo bombardamento, ai tiranni di entrambe le parti, a quelli che pensano di cambiare il mondo con le armi. Appena mi sono ripresa dallo choc provocato dalla calma della notte scorsa, sono caduta in catalessi, sfinita. I canali della tivù di stato hanno trasmesso la notizia che Milošević ha deciso di iniziare il ritiro dell’esercito dal Kosovo, che ha deciso di accettare la trattativa di pace.
Prima che mi perdessi nel flusso di questa felicità inaspettata, la Nato mi ha subito riportata alla realtà, dando la sua risposta, già scontata e chiara: il bombardamento continuerà ugualmente. E io che avevo paura che fosse tutto finito. Ci mancava solo la pace che nessuno voleva. Ho avuto paura che finisse la sofferenza dei civili, che finisse l’esodo dei profughi dal Kosovo, che finisse la guerra e che arrivasse una pace di cui nessuno sapesse cosa farsene. Nonostante queste difficoltà, ho ripreso fiato, ricordandomi che in Bosnia la trattativa di pace fu stabilita una quarantina di volte, e che nel frattempo migliaia di persone innocenti continuavano a soffrire. A che cosa serve la pace, quando la vita è bella anche così? Viviamo in un paese distrutto, dal quale più di un milione di abitanti sono stati espulsi, migliaia di persone uccise, le case e le terre bruciate, i bambini per sempre traumatizzati, eppure noi adulti stiamo bene, viviamo perché non sappiamo fare altro.

  • Talking Heads, Life During Wartime

Alla fine di maggio del 1999, Biljana riesce a uscire da Belgrado e dalla Serbia. Viene invitata, infatti, in Germania e in Francia per alcune rappresentazioni teatrali dei suoi testi. Sale su un pullman, arriva in Croazia con un visto temporaneo e da lì riesce a volare a Colonia, dove riprende il diario.

2 GIUGNO 1999 – Qui, nel cuore dell’Europa di cui, ne sono convinta, anch’io faccio parte, mi meraviglio di come la pace s’introduca silenziosamente, quasi furtivamente, nelle nostre vite. Mi meraviglio di me stessa e della mia incapacità di gioire delle notizie quasi certe che annunciano lo stesso evento finalmente la guerra è finita.
Una volta pensavo che avrei festeggiato, avrei amato la prima persona nella quale mi fossi imbattuta, che sarei diventata più giovane e bella, che avrei urlato di gioia alla notizia che tutto era finito. Ora, mentre sta per arrivare questo momento, non provo più nulla, solo un’arida tristezza, una nostalgia del tempo perduto, un senso di delusione per questo mondo in cui ero nata con gioia. Se è vero, e spero che lo sia, che la guerra è finita o che si sta preparando la sua fine, l’unica cosa che sento nel profondo dell’anima è la disperazione di aver dovuto sopportare tanto per arrivare a questa meta.
All’alba del nuovo giorno, guardando montagne e laghi, case eleganti e chiese intatte, qui nel cuore dell’Unione Europea, mi rammarico di questo mondo, delle nostre vite, dei nostri morti che di questa pace non godranno. All’alba di questo nuovo giorno, penso alle porte dell’Unione Europea e mi chiedo dove sia il mio posto e cosa sarà di tutti noi ora che tutto sembra ormai concluso. All’alba del nuovo millennio, la mia unica speranza è che il mondo, negli anni futuri, rinunci ad una caparbia separazione etnica, economica o di qualsiasi altro tipo.
Questa mattina, il mio unico, profondo sentimento è il grande desiderio di tornare a casa. Là, insieme a tutti coloro che amo, in un greve silenzio, piangerò su questa via insanguinata della pace.

  • Joy Division, A Means to an End

Terza parte: A casa, di nuovo.

La tournée teatrale dura qualche settimana. Biljana potrebbe restare in Germania, dove ci sono anche molti serbi emigrati durante la guerra, ma non si sente a posto, non si sente nel suo posto. Forse avverte che qualcosa, nel suo paese, sta cambiando. O forse ha solo nostalgia. Non importa: sale sull’aereo e ritorna a Belgrado, che ritrova mentre viene inondata dai profughi che scappano dal Kosovo.

23 GIUGNO 1999 – Oggi scrivo l’ultima pagina del mio diario di guerra. La scrivo quando la guerra è praticamente finita, si aspetta solo che il governo della Jugoslavia ammetta con se stesso e con i suoi cittadini che è veramente terminata. Formalmente nel mio paese c’è ancora lo stato di guerra, e a giudicare dal continuo rinvio del regime di una conclusione ufficiale, potrà durare per sempre. Ma nonostante questo, la guerra è veramente finita. Ed è arrivato il tempo di confrontarci con le sue conseguenze. Non si deve più aspettare, anche perché questo regime avrebbe desiderato che la guerra durasse per sempre, almeno nella testa della gente, una guerra che porta con sé la paura e ostacola ogni progresso, una guerra la cui fine può annunciare cambiamenti pericolosi. Eppure sembra che dall’altra parte, alla Nato, convenga questo spavento. Confermerà la fondatezza della loro azione, perché la Nato è un’organizzazione militare, e che cosa può fare un esercito senza la guerra? Nonostante tutto, la guerra è finita, e io oggi non voglio più aspettare. Non voglio aspettare nessuna legge statale, nessun decreto militare internazionale, per forzare me stessa, chiudendo qui i miei appunti.
Di che cosa posso testimoniare io, un testimone muto, sulle ultime pagine del mio diario di guerra? Che vivo in un paese pieno di boia, rimpatriati dalle quattro guerre precedenti. In un paese di boia vestiti in borghese, che dopo tutto quello che hanno fatto continuano a vivere una vita normale. In un paese dove si tengono negoziati con i boia, mentre le vittime vengono punite cancellandogli il futuro. Che cosa posso dire guardando il mio paese triste, che cosa devo scrivere sulla ultima pagina del mio diario di guerra? Questa guerra per un pezzo di terra mi ha spinto a pensare: di quanta terra ha veramente bisogno un uomo?
Mi sono ricordata oggi di una famosa storia. Una volta in un regno antico venne introdotta una legge che stabiliva che la terra va distribuita in base al seguente principio: ognuno otterrà la quantità di terra che sarà in grado di percorrere in un giorno, dall’alba fino al crepuscolo. Un uomo che desiderava tanta terra all’alba ha iniziato la conquista. Ha camminato facendo un giro sempre più grande, ha camminato sapendo che prima del crepuscolo doveva tornare proprio nel punto da cui era partito. La terra era molto bella, attraente e lui diceva: “Ancora un po’, solo questo prato, ancora quel boschetto, solo questo pezzetto…” e si allontanava sempre di più. Quando è iniziato il crepuscolo l’uomo si è affrettato a tornare. Per chiudere il cerchio con i suoi passi, come prescriveva la legge, altrimenti sarebbe rimasto senza la terra promessa. Camminava e camminava, sempre più veloce, correva, e proprio prima della sera ha visto il punto dove doveva arrivare e i suoi governanti, ricchi e oziosi, che si divertivano a guardarlo. L’uomo ha corso con le sue ultime forze, per superare il sole ed è arrivato. È arrivato proprio in tempo per vedere i governanti ridergli in faccia e “generosamente” regalargli il pezzo di terra conquistato. È arrivato in tempo, ma esausto, stanco, stremato dalla conquista della terra. Tanto da potersi soltanto sdraiare su di essa e morire. Mentre lo seppellivano con qualche pugno di terra nera, l’uomo ormai morto ha capito la verità: ecco di quanta terra ha bisogno un uomo. Tanta quanto basta per coprire il corpo e dimenticare l’anima sotto di essa.
Oggi finisco di scrivere questo diario e mi dispiace veramente. Oggi dico addio a tutti e sono veramente triste. Perché scrivendo questo diario mi sono mantenuta in vita. Per giorni, solo per scrivere il diario, sono rimasta con la mente sana. Quando era più difficile, prendevo la scrittura sul serio, come una missione. Con la forza di questi sentimenti decidevo di vivere. E scrivendo ho conquistato complici. La gente che era descritta nel mio diario, la gente che ha letto il mio diario, la gente che usava il tempo della propria tranquilla vita per comprendere che cosa veramente stava succedendo qui a tutti noi.
Erano pesanti per me quelle notti sotto le bombe, era pesante la paura per la gente che amo, mi pesavano i giorni senza la corrente elettrica e l’acqua corrente, mi pesava la vergogna della mia paura. Avevo la paura della morte, paura delle rappresaglie perché parlavo pubblicamente, avevo paura che la mia paura mi potesse accecare. E adesso che tutto questo è passato, ho solo paura dell’indifferenza.
So benissimo che nessun male può durare per sempre. Il nostro tempo non è ancora arrivato. Ma giratevi e vedrete: il mondo sta cambiando. Lo stiamo cambiando noi, anche se non ne siamo coscienti. E sarà migliore, vedrete.

  • Idoli, Maljčiki

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232 Celsius (circa), sesta puntata; seconda parte, dove Marco Manicardi intervista Sergio Pilu.

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A volte è difficile spiegare perché vuoi vedere un posto: sarà che ognuno ha i suoi luoghi mitici, sarà che invece “siamo su questo pianeta una volta sola, e tanto vale farsene un’idea”. Sta di fatto che in tanti anni ero riuscito a toccare, almeno di sfuggita, praticamente tutti i paesi dei Balcani tranne quello che volevo conoscere per davvero: la Bosnia; poi un giorno sono salito su un pullman per andare a Sarajevo a farmi quell’idea e quando sono tornato ho pensato di raccontare quel che avevo visto, e sentito, e pensato.

Così recita la quarta di copertina di Il tunnel: Mustafa, mia mamma, un viaggio in Bosnia, l’ultimo libro di Sergio Pilu, uscito per SirLib nel marzo del 2020.

Sergio Pilu nasce nel secolo scorso a Milano, a dispetto del cognome e dei globuli rossi a forma di pietra nuragica. Dice di guadagnarsi da vivere grazie a oscure pratiche di marketing, ama fare viaggi in posti che nessuno normalmente si sogna di visitare oppure farli in modi che nessuno normalmente ha voglia di sopportare, ha una strana passione per le parentesi quadre. Lo chiamano il [Sir], per merito o colpa di www.blogsquonk.it, un blog ormai maggiorenne al quale ogni tanto fa una carezza e toglie le ragnatele. È il peraltro co-conduttore e ideatore, insieme a Marco Manicardi, che poi sono io, del programma radiofonico 232 Celsius (circa).

Marco Manicardi: Buonasera, Sir. Perché ha scritto Il tunnel?

Sergio Pilu: Mah, ovviamente l’ho scritto perché sono un esibizionista, che mi sembra una motivazione onesta, anche se magari non tanto nobile. Poi, mah, poi l’ho scritto perché ho fatto questo viaggio in Bosnia, è un viaggio che ho fatto in pullman perché ho la fissa dei viaggi scomodi, e che ho fatto perché la Bosnia, nel corso degli anni, per me, è diventato un posto importante. E, niente, facendo il viaggio mi è capitato di incontrare delle persone che avevano delle storie, o che mi pareva che fossero delle storie in sé, no?, e quindi, niente, quando sono tornato a casa ho pensato che, boh, forse potevo provare a raccontarle. Poteva avere senso farlo perché erano delle storie piccole, che non erano state raccontate da nessuno, prima, nonostante sulla Bosnia durante e dopo la guerra si sia scritto o detto moltissimo, no? E quindi in qualche modo si potevano vedere come qualcosa che andava a incastrarsi in un altro qualcosa molto più grande. E poi c’erano anche delle storie che, probabilmente, vedevo solo io. Ad esempio i liceali che ho incontrato nel cimitero di Kovaci che si sono messi lì tutti intorno a cantare, intorno alla tomba del primo presidente bosniaco, non credo, anzi sono sicuro che non avessero in testa di raccontare qualcosa, però io quel qualcosa ce l’ho visto dentro, e allora ho pensato di scriverlo. Poi, uno, questa faccenda qua può anche prenderla legittimamente come un’allucinazione.
E poi, mah, e poi continuavo a risentire la frase che la Baba Safa, cioè questa signora anziana che abita vicino a Srebrenica, in casa della quale mi son fermato, ho bevuto caffè alla bosniaca, ho mangiato i biscotti al miele, e la Baba Safa, dicevo, ha detto questa frase poco prima che andassimo via la salutassimo, e stava raccontando di alcuni incidenti capitati sul confine con la Serbia, ma proprio un paio di giorni prima a pochissimi chilometri da casa sua, e, niente, ci disse questa cosa: “anche l’altra volta è iniziato così”. E, non so, in quel momento lì mi è sembrata una cosa molto importante, quasi, proprio, necessaria da dire, ma ho continuato a sentirla, questa frase, e, boh, non che il mondo stesse aspettando che la dicessi io, eh, però, già che che c’ero, ecco.

MM: Come, dove e quando l’ha scritto?

SP: Allora, l’ho scritto quasi tutto a casa mia a Milano, nel mio studio, su una scrivania che è dotata di una spillatrice di birra, tre portapenne strapieni e un poster delle tessere del PCI dal 1921 a oggi. L’ho scritto in più o meno tre mesi e mezzo, diciamo da settembre del 2019 a gennaio del 2020, senza aver preso una riga di appunto che fosse una. L’ho scritto su un portatile dove stanno tutte le foto che ho scattato viaggiando in questi anni, quindi l’ho fatto riguardando tutte le immagini che avevo preso durante quei giorni, durante quel viaggio, e in contemporanea ho fatto un paio di interviste a distanza che mi sono servite a completare il quadro. E, niente, mentre scrivevo mi sono reso conto che in realtà, pur senza aver mai buttato giù nemmeno una riga, beh, insomma, molto probabilmente il libro avevo iniziato a scriverlo già da tempo.

MM: E… è bello?

SP: Mh… diciamo che è un tipo. Ecco.

  • Radiohead, Lucky

— Sergio Pilu legge un pezzetto di Il tunnel: Mustafa, mia mamma, un viaggio in Bosnia —

  • Bombaj Štampa, Često Poželim Da Sve Zaboravim

— Sergio Pilu legge un altro pezzetto di Il tunnel: Mustafa, mia mamma, un viaggio in Bosnia —

  • C.S.I., Cupe Vampe

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La donna-libro (ride): sia uomo, master Ridley. In questo giorno, per grazia di Dio, noi accenderemo una candela così grande, che sono convinto non si spegnerà mai.

(Fahrenheit 451; François Truffaut, 1966)

  • XTC, Books Are Burning (sigla)

E questa era la sesta puntata, e forse ultima per la prima stagione, di 232 Celsius (circa), dove Sergio Pilu ha raccontato e letto Diario da Belgrado, un libro del 2000 di Biljana Srbljanović, e io, che sono Marco Manicardi, ho intervistato Sergio Pilu su un libro del 2020 che si chiama Il tunnel: Mustafa, mia mamma, un viaggio in Bosnia.

Le canzoni che avete ascoltato erano, nell’ordine:

  • Books Are Burning, degli XTC, da un disco che si chiama Nonsuch del 1992, che è stata la sigla iniziale per tutte e sei le puntate di 232 Celsius (circa) e che in questa puntata fa anche da sigla finale
  • Life During Wartime, dei Talking Heads, da Fear of Music del 1979
  • A Means to an End, dei Joy Division, dall’album Closer, del 1980
  • Maljčiki, un singolo dei serbi Idoli, inserito anche in una compilation del 1981 di new wave di Belgrado, che si chiama Paket Aranžman (se ho detto bene)
  • Lucky, dei Radiohead, da OK Computer del 1997, ma prima inserita da Brian Eno nel 1995 in una compilation di beneficenza per War Child intitolata The Help Album
  • Često Poželim Da Sve Zaboravim, dei bosniaci Bombaj Štampa, da un disco che si chiama Bombaj Štampa del 1987 (spero di esserci riuscito)
  • e infine, Cupe Vampe dei C.S.I., da Linea Gotica del 1996

Ad accompagnare le letture c’era la Serenata per archi in Mi maggiore, Op.22, di Antonín Leopold Dvořák, eseguita dalla English Chamber Orchestra diretta da Daniel Barenboim nel 1974, credo.

232 Celsious (circa), nelle persone di Sergio Pilu e Marco Manicardi, ringrazia Caterina Imbeni e Simone Marchetti per la consulenza musicale, e Andrea Bentivoglio, il peraltro direttore artistico di Radio Sverso, per la pazienza.

Questa, come dicevo, è l’ultima puntata della prima stagione, ma 232 Celsious (circa), probabilmente, tornerà, più avanti, con qualche speciale e forse con una nuova stagione, dateci solo il tempo di leggere qualche libro.

Voi, intanto, cercate di stare bene. E grazie per averci ascoltati.

A presto.
Ciao.


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