232 Celsius (circa) s1e04 – il podcast (e la trascrizione)

E questo è il podcast della quarta puntata di 232 Celsius (circa), una trasmissione sui libri, andata in onda alle 18 di venerdì 26 febbraio su Radio Sverso. Dura un’ora (circa) ed è diviso in due parti: nella prima Sergio Pilu parla di un libro che si chiama Furore, del 1939, di John Ernest Steinbeck Jr; e nella seconda parte ci sono io che intervisto Leonardo Tondelli su un libro che si chiama Getting Better (sottotitolo: Le 250 migliori canzoni dei Beatles classificate, valutate, commentate), del 2020.

(su Spotify, su Google Podcast, in mp3)

E quella che segue è una specie di trascrizione della puntata, fedele al 98%, diciamo (e in mezzo ci sono anche tutte le canzoni che abbiamo trasmesso):

Stammi a sentire, Montag: a tutti noi una volta nella carriera viene la curiosità di sapere che cosa c’è in questi libri, ci viene come una specie di smania, vero? Beh, dai retta a me, Montag: non c’è niente lì. I libri non hanno niente da dire! Guarda, queste sono opere di fantasia e parlano di gente che non è mai esistita. I pazzi che li leggono diventano insoddisfatti, cominciano a desiderare di vivere in modi diversi, il che non è mai possibile.

(Fahrenheit 451; François Truffaut, 1966)

  • XTC, Books Are Burning (sigla)

Introduzione di Andrea Bentivoglio:

La città fantasma è viva. È viva nel tappeto di libri che copre l’intero pavimento di un’aula scolastica (è così viva che sembra di sentirne il dolore: avete mai camminato sopra centinaia di libri? Provate a farlo. Provate a prendere tutti i libri che avete in casa e gettarli per terra alla rinfusa coprendo le piastrelle che pulite una volta alla settimana, e poi camminateci sopra, e sentite come la carta risponde al vostro peso, come se vi stesse dicendo mi fai male; provate a farlo, e avvertite quella sensazione di colpa e ingiustizia per come state trattando quegli oggetti nei quali la nostra civiltà ha investito tutta se stessa per aiutarsi a vicenda e restare a galla).

232 Celsius (circa) è la trasmissione che Radio Sverso dedica ai libri. Quelli famosi e quelli meno, quelli scritti da gente morta e sepolta e quelli pubblicati da gente viva e vegeta. Perché a noi i libri piacciono, ci hanno spesso cambiato la vita, certamente ce l’hanno resa migliore. Quindi, visto che vi vogliamo bene, cerchiamo di rendere migliore anche la vostra.

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232 Celsius (circa): un programma di Sergio Pilu e Marco Manicardi.

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232 Celsius (circa), quarta puntata; prima parte, dove Sergio Pilu racconta e legge Furore di John Steinbeck.

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Ci sono dei libri che se li volessimo riassumere in una sola parola, questa sarebbe “necessari”. Nel 1939 John Steinbeck scrisse un libro che in Italia sarebbe stato tradotto con il titolo di Furore e il cui titolo originale, in inglese, è The Grapes of Wrath, che significa più o meno “I grappoli dell’ira” ed è grosso modo una citazione di un versetto dell’Apocalisse di San Giovanni. È il libro che leggiamo in queste due puntate e terremo come riferimento l’adattamento che ne ha fatto qualche anno fa Alessandro Barico.
Furore fu una specie di instant book, nel quale Steinbeck raccontò la migrazione di cinquecentomila americani, erano contadini che vivevano e lavoravano nelle Grandi Pianure del Midwest e che, spinti dalla fame, ma la fame vera, dalla disoccupazione, dalla siccità abbandonarono le loro case trasferendosi a Ovest, in particolare in California, per cercare non dico una vita migliore, ma veramente proprio, semplicemente, una vita. Erano in tanti, ed erano un paradosso vivente: cioè erano cittadini poveri, molto poveri, del paese più ricco del mondo. Un pezzo del continente si svuotò e se ne riempì un altro: e come sappiamo anche noi, non è una faccenda facile, quando succede. Anzi.
Prima di partire provavano, erano costretti, a vendere tutto quello che avevano per raccogliere quei pochi dollari – che però per loro erano moltissimi – che servivano a comprare una macchina, un camion, qualunque mezzo sul quale montare e andare a Ovest. Da vendere non avevano nient’altro che le loro case, gli animali, gli attrezzi di lavoro e qualche oggetto – uno scialle, un orologio – che non avevano alcun valore, tranne quello affettivo. Il fatto è che quando tutti vendono le stesse cose nello stesso momento, quelle cose non valgono più niente.

Quanto? Dieci dollari carro compreso? Gesù Cristo, piuttosto li accoppo e li do ai cani da mangiare. Alla malora, comunque, prendeteli! S’è preso nel prezzo anche la Rosa che li baciava nel morbido tra le nari, e tutte le mie maledizioni. E i mezzadri tornavano a piedi, mani in tasca, cappelli abbassati sugli occhi. Compravano un litro e se lo bevevan per strada, per stordirsi, per render meno cocente il ricordo della disfatta. E il vino non li faceva né ridere né cantare né pizzicar la chitarra. Tornavano mogi alle case devastate, mani in tasca e teste basse. Si tratta di ricominciare. California, paese ricco, dove la frutta cresce da sé; si tratta di ricominciare. Ma alla nostra età? Un bimbo può, ma noi? Io e te, vedi, siamo quel ch’è stato: non potremo mai essere quel che sarà. Siamo le scene che abbiam vissute: siamo questa terra, questa terra rossa: siamo gli anni d’inondazione e gli anni di polvere creata dal vento e gli anni di siccità. Noi non si può ricominciare. Lo strozzino s’è preso con la roba anche le nostre maledizioni, ma l’amarezza ce l’ha lasciata dentro, l’amarezza che continuerà a roderci per tutta la vita.
E le mamme si rivoltolavano tra le mani le reliquie del passato condannato all’oblio. Com’è possibile vivere senza le cose che sono la nostra vita? Spogli del nostro passato non ci riconosciamo. Fa niente, non c’è posto, bisogna lasciarlo, bruciarlo.

  • The Gun Club, Mother Of Earth

I protagonisti di Furore sono i membri di una famiglia. Si chiamano Joad. Padre, madre – che tutti chiamano Ma’ –, due nonni che non se ne vogliono andare assolutamente dalla loro casa in Oklahoma. C’è lo zio John, fratello del padre, che si capisce che ha una brutta storia che lo tormenta e dalla quale cerca di fuggire bevendo, più o meno sotto il controllo della famiglia, e poi ci sono sei figli. Due sono piccoli, Ruth e Winfield; poi c’è Rosa Tea, che nell’originale inglese ha il meraviglioso nome di Rose of Sharon, che poi è l’ibisco cinese, che un fiore splendido. Rosa Tea è incinta, diciamo parecchio incinta, e con lei c’è Connie, il marito. Lei diciotto e lui diciannove anni, sono di quelli che il mondo ha il perimetro del loro abbraccio e fuori non c’è niente e nessuno. I Joad hanno un cane, che farà una brutta fine. Poi ci sono i tre maschi grandi: Noah, il maggiore, Al, il minore dei tre, adolescente ormai a un passo dal diventare uomo, e Tom. Tom Joad, che nel film di John Ford venne interpretato da Henry Fonda e che insieme alla madre è il personaggio che spicca su tutti. È uscito da poco dal carcere, dove è rimasto quattro anni per aver ucciso un uomo in una rissa, però si capisce che secondo Steinbeck non era veramente colpa sua. Con la madre, Tom è il pilastro della famiglia, cioè è quello che tutti ascoltano, quello al quale si rivolgono quando le cose si mettono male, insomma. Dato che lo hanno mandato fuori sulla parola, Tom non potrebbe uscire dai confini dello stato, ma, dato che emigreranno, finirà per tornare ad essere fuorilegge.
Infine c’è Casy. Jim Casy. Era un predicatore, non un prete ma alla fine faceva tutte le cose che fanno i preti e la gente in fondo lo considerava tale. Però a un certo punto dice che ha perso la fede e così ha smesso. La sera prima di partire devono decidere se portarsi dietro anche lui, che in fondo non fa parte della famiglia. Il padre, che sulla carta sarebbe il cosiddetto capofamiglia, si volta verso la moglie e le dice «Mamma, tu cosa ne pensi, siamo in grado di portarci dietro il predicatore?»
E lei, secca:

Quanto a ‘essere in grado’, siamo in grado di niente; né partire per la California, né niente. La questione è di sapere se ‘vogliamo’ prenderlo con noi, o no. Per conto mio non ho mai sentito che un Joad abbia rifiutato assistenza a chi la chiede sulla strada. Di Joad cattivi ne ho conosciuti; ma meschini così, no.

  • Matt Costa, Sweet Thursday

I Joad, con Connie e Casy, partono su un Hudson del ’26 che è un catorcio sfinito. Devono fare tremila chilometri: Oklahoma, Texas, New Mexico, Arizona, California. E a un certo punto vedono una stazione di servizio un po’ scassata e si fermano per mettere l’acqua nel radiatore e fare un po’ di benzina. La benzina costa cara, ovviamente. La benzina è una cosa che si trova in tutto il libro, fino quasi alla fine. Ed è importante quanto il cibo, a volte anche di più: perché a suo modo è un cibo, è il cibo per il camioncino, loro scappano dalla fame e dalla miseria con il camioncino, grazie al camioncino, senza il camioncino loro non possono andare da nessuna parte, quindi ci sono dei momenti in cui devono decidere se nutrire il camioncino oppure nutrire se stessi. E fanno benzina, danno da mangiare al camioncino sperando che li porti dove possono mangiare anche loro. Si fermano, e gli viene incontro il padrone della stazione di servizio.

Diede un’occhiata alla Hudson con aria tracotante e chiese, con tono brusco: «Fate acquisti? Benzina o altro?»
Al era già sceso e stava svitando il tappo del radiatore, pronto a ritirar la mano al primo spruzzo, per non scottarsi.
«Benzina sì,» rispose.
«Soldi ne avete?»
«Certo. Per chi ci avete preso, per accattoni?»
Ogni tracotanza sparì dalla faccia dell’esercente.
«Fate, fate, servitevi pure da voi dell’acqua.» E s’affrettò e spiegare. «Tanta gente, in questi giorni. Vengono, prendono l’acqua, mi sporcano la latrina, comprano niente e perdio rubano, se non li tengo d’occhio. Senza un soldo in tasca, s’aspettano che gli dia la benzina per carità.»
Tom gli s’avvicinò con aria minacciosa.
«Noi si paga, non si vuol niente gratis.»
«Certo, certo, ho capito subito,» s’affrettò a ribattere l’esercente. «Servitevi d’acqua, usate pure la latrina.»
Winfield s’era impadronito del tubo, aveva aperto la chiavetta del beccuccio e s’era irrorata la faccia e la testa, e ora sgocciolava tutto contento.
«Niente fredda,» diceva.
L’esercente diede un tono confidenziale alla sua conversazione.
«Cinquantasei macchine ho contato ieri; cinquanta, sessanta al giorno. Di questo passo dove si va? Tutti profughi. Tutta gente che trasloca verso ovest coi bambini e tutte le masserizie. Dove vanno? Cosa vanno a fare?»
«Quel che facciamo noi,» brontolò Tom.
«Si cerca un posto dove vivere; si tenta. Si fa quel che si può.»
«Ma di questo passo, dove si va, domando io, dove si va? Anch’io sono in difficoltà. I ricchi qui non si fermano. Non uno. Van tutti a servirsi nei posti eleganti in città. Da me si ferma solo chi non può spendere.»
«Solo chi non può spendere,» ripeteva l’esercente in tono sconsolato. «Dovreste vedere, qua nel retro, la roba che mi danno in cambio di benzina e di olio: letti, carrozzelle per bambini, pentole e padelle. L’altro giorno mi han lasciata una bambola, per una latta da quattro litri. Cosa n’ho da fare, di tutta questa roba? Metter su un negozio di rigattiere? Oggi uno voleva darmi le sue scarpe! Se fossi un uomo senza scrupoli, credo potrei persino farmi dare…»
Ma l’occhiata che diede alla mamma lo consigliò a non finire la frase.
Il predicatore s’era bagnata la testa, che sgocciolava ancora, e le gocce gli infradiciavano la camicia. S’avvicinò all’esercente e prese posizione accanto a Tom. Disse: «Mica è colpa degli sfrattati. Vi piacerebbe, a voi, dover vendere il vostro letto per fare il pieno?»
«Lo so, lo so che non è loro la colpa,» s’affrettò ad ammettere in tono conciliante. «So che hanno tutti le loro buone ragioni di mettersi in viaggio. Ma di questo passo dove si va? È questo che vorrei sapere. Non c’è più modo di guadagnarsi onestamente la vita. A lavorar la terra si va in malora. Ve lo chiedo a voi: dove si va a finire? Nessuno sa darmi una risposta. Ma esser ridotti al punto da dar via le scarpe per poter continuare il viaggio…!»
Si tolse l’elmetto di cartone argentato per asciugarsi il sudore della fronte. E Tom si tolse il berretto allo stesso scopo, poi lo tuffò nell’acqua, lo torse ben bene e se lo rimise in testa.
«Proprio così, non si sa dove si va a finire,» continuava a brontolare. «Io dico che è il paese che va in rovina, sussidi o no.»
Il predicatore disse: «Io ho girato molto. Dappertutto è la stessa storia. Non si sente altro: dove si va, dove si va? Ma perché voler sapere dove, dico io. L’essenziale è di andare. Di muoversi. Dove, non importa. Adesso si direbbe che tutto il mondo stia traslocando. Perché trasloca la gente? Perché va in cerca di condizioni migliori di quelle in cui è. Per trovarle, è costretta a traslocare, a muoversi; a muoversi finché le trova. I torti che riceve, le ingiustizie che subisce, tutto questo è tollerabile, finché conserva la speranza di sistemarsi altrove.»
Il grassone azionava ritmicamente la pompa e l’ago si spostava sul quadrante registrando l’efflusso.
«Sì, sì, capisco,» ripeteva cocciuto, «ma di questo passo dove si va, domando io, dove si va? È questo che vorrei sapere.»
Tom perdette la pazienza.
«E questo non lo saprete mai. Il mio amico qui cercava appunto di spiegarvi, e voi continuate a insistere nel vostro ritornello. Li conosco i tipi come voi. Non fanno che lagnarsi, piagnucolare, ma non muoverebbero un dito per studiare un rimedio. La gente crepa di fame e nessuno si ribella. Tra poco vai in malora anche te, sta’ tranquillo, col tuo ‘dove si va, dove si va’. Tutti una massa di vigliacchi, che per calmare la paura canta la stessa nenia per addormentarsi.»
Diede una occhiata significativa alla pompa, vecchia e arrugginita, allo sgabuzzino di legno che le stava dietro, mostrando solamente le tracce del giallo con cui aveva audacemente tentato di emulare la vistosità dei grandi posti di rifornimento delle città. Il tentativo era miseramente fallito; e l’esercente lo sapeva, ne era persuaso. E notò ora, per la prima volta, il miserando stato dei calzoni di fustagno del grasso esercente, e delle bretelle che li sostenevano, e il comico aspetto dell’elmetto di cartone. Disse: «Non volevo mica offendervi, ma… mi sembra che correte rischio anche voi di trovarvi sul lastrico, un giorno o l’altro. E, non per colpa della trattrice, ma piuttosto dei grossi posti di rifornimento in città. Vero o no? Credo che anche a voi toccherà di traslocare, tra poco. Mi sbaglio?»
Mentre Tom parlava il grasso esercente aveva rallentato la manovra della pompa fino a fermarsi, e aveva preso a guardarlo con un’espressione man mano sempre più sgomenta.
«Com’è che lo sapete?» domandò debolmente. «Come fate a sapere che se n’è già parlato di far bagaglio e andare anche noi nel West?»
Gli rispose Casy: «Lo fanno tutti,» disse. «Prendete me, per esempio, che lottavo con tutte le mie forze contro il demonio perché credevo che il demonio fosse il nemico. Ma c’è qualcosa di peggio del demonio che ha messo le grinfie sul paese, e non mollerà finché non sarà distrutto.»
Tacque e sbirciò Tom. Il grassone guardò lontano, con occhi pieni d’afflizione, e la sua mano riprese ad azionare la leva della pompa.
«Chissà dove si va a finire,» disse ancora una volta, ma con un accento meno petulante.

  • Bruce Springsteen, The Ghost of Tom Joad

***

232 Celsius (circa), quarta puntata; seconda parte, dove Marco Manicardi intervista Leonardo Tondelli.

***

Delle canzoni dei Beatles ormai sappiamo tutto, o no? Chi le ha scritte, chi le cantava, chi suonava il pianoforte, il colore dei calzini di Ringo. Ogni canzone ha il suo aneddoto che passa di libro in libro: ecco: in questo saggio troverete anche qualcos’altro. I Beatles come inventori di un nuovo modo di fare musica, ma anche come prima boy band a invertire i tradizionali di genere, e intonare gioiosamente ritornelli concepiti fino a quel momento soltanto per gruppi vocali di ragazzine. I Beatles grandi interpreti, ma anche esecutori maldestri, costretti a sperimentare continuamente per ovviare ai propri limiti. Nati sotto i bombardamenti, simbolo del boom, proiettati verso il futuro ma insidiati dagli spettri del passato; protagonisti di un mito della Caduta che si dipana canzone dopo canzone. Di libri sulle canzoni dei Beatles se ne sono scritti tanti, ma questo di sicuro non lo avete ancora letto.

Così recita la quarta di copertina di Getting Better (sottotitolo: Le 250 migliori canzoni dei Beatles classificate, valutate, commentate), l’ultimo libro di Leonardo Tondelli uscito alla fine del 2020 per Arcana.
Sempre nella quarta di copertina, in fondo, si dice che:

Leonardo Tondelli da vent’anni è l’autore del più verboso blog italiano, leonardo.blogspot.com. Ha collaborato con «l’Unità», e per «il Post» ha scritto una storia (infinita) di Bob Dylan attraverso i suoi dischi. Tra le altre cose ha pubblicato La scossa, l’estate del terremoto in Emilia (Chiarelettere, 2012) e Futurista senza futuro. Marinetti ultimo mitografo (Le Lettere, 2009).

Marco Manicardi: Ciao Leonardo, perché hai scritto Getting Better?

Leonardo Tondelli: L’ho scritto perché coltivo questa perversione che mi piace scrivere (questo non è perverso) però vorrei anche essere pagato per quello che scrivo (e questo mi rendo conto che è abbastanza perverso). Quindi cerco sempre degli argomenti interessanti per tutti, perché alla fine fosse per me scriverei di… di fenomenologia, di sentimenti, ma sono cose che interessano a pochi oppure a volte interessano a tutti quindi sono inflazionate. Ad esempio, per il Post mi ero inventato la rubrica del Santo del giorno, che non è che mi abbia coperto d’oro, però almeno una volta all’anno ce l’hanno tutti sul calendario un Santo col proprio nome. Tranne Noemi (scusa Noemi). E quindi un minimo di riscontro l’ho avuto, ma volevo di più, non mi bastava più. Mi sono chiesto cosa poteva esserci di più popolare dei Santi e quindi, fatalmente, sono arrivato ai Beatles, che come è noto a un certo punto erano più popolari di Gesù, il che vuol dire oggi che, come minimo, se la giocano con Padre Pio, insomma, siamo lì. Io poi cerco di scrivere le cose che mi piacerebbe leggere e che magari qualcun altro ha già scritto ma non me ne sono accorto, perché cerco di evitare il più possibile di leggere, così mi rimane più tempo per scrivere. E, per esempio, una cosa che ho notato negli ultimi anni è che ogni tanto mi piace ascoltare le vecchie canzoni, che conosco già benissimo, cioè probabilmente mi sto rincoglionendo… Non solo, ma mentre le ascolto presto attenzione agli arrangiamenti e mi piacerebbe che qualcuno mi spiegasse meglio cosa sto ascoltando, la chitarra, la trombetta e… vorrei, non so, leggere gente che litiga su una canzone, e dopo un po’ mi rendo conto che sto leggendo per la quinta volta la stessa pagina di Wikipedia sul quarto disco di un gruppo di serie B degli anni 80, e secondo me non sono neanche il solo, c’è un sacco di gente che commenta sotto e… e così ho pensato che probabilmente c’era il margine per scrivere un libro così. Però, appunto, invece di scriverlo su un gruppo sconosciuto, ho scelto i Beatles, che sono ancora i più conosciuti. Uno non è che accorga su YouTube o su Spotify, dove qualunque trapper credo faccia più ascolti, ma se ne accorge in libreria, dove ci sono sempre i libri sui Beatles, non mancano mai, quindi forse la gente non li ascolta tantissimo, ma li legge, oppure forse neanche li legge, però li compra e li regala soprattutto a Natale. Quindi io mi ci sono buttato con tantissima genuina passione per la musica e… e per il guadagno.

MM: Dove, come e quando l’hai scritto?

LT: Questa domanda è un po’ una presa in giro, perché, insomma, dove posso avere scritto un libro nel 2020? Ovviamente l’ho scritto a casa mia. Anzi, colgo l’occasione per ringraziare gli abitanti di casa mia, che sono stati così pazienti con me. Non è molto facile convivere con una persona che sta scrivendo un libro, anche un libro di musica, quindi vuole silenzio, ma allo stesso tempo deve ascoltare della musica… è una cosa abbastanza faticosa, e mi hanno fatto anche da mangiare e quindi, davvero, grazie mille a tutti i coinquilini.
Ho cominciato, in realtà, un po’ prima, perché già nell’estate del ’19 stavo mettendo giù le cose e volevo appunto trovare un trucco per scrivere tantissimi pezzi sul Post, nella speranza appunto di una, così, strana idea di ricchezza che ho, e avevo scoperto con una certa eccitazione da nerd che le canzoni dei Beatles sono molto… hanno una quantità che è molto vicina a una potenza di 2, che è 256. E qui, ovviamente, qualcuno ha già capito dove voglio andare a parare quando dico “duecentocinquantasei”… essendo una potenza di 2 si può fare un torneo stile Wimbledon perfetto. Però, mentre accompagnavo così la mia prole al campo estivo, riflettevo tanto sul fatto che probabilmente sarei impazzito durante un torneo di canzoni dei Beatles da 256, perché è veramente qualcosa di lunghissimo e le persone dopo un po’ si annoiano. Allora ho optato per un progetto un po’ più semplice, le ho messe in fila, ho trovato un sistema per confrontare le varie classifiche che esistevano già, le più autorevoli, ho scritto al Post per spiegare un po’ il progetto, ho spiegato che, insomma, una lista con le migliori canzoni dei Beatles ce l’hanno tutte le più prestigiose testate del mondo e quindi io avrei scritto quella del Post. E poi però c’è stato il lockdown. Appena prima del lockdown ero riuscito a firmare il contratto con una casa editrice alla quale sono molto legato da un punto di vista affettivo, perché è la casa editrice che quando ero molto giovane pubblicava i testi tradotti delle canzoni dei gruppi rock e, insomma, in quel periodo non è che si potesse viaggiare come oggi, non c’erano i video, non c’erano… di inglese… se volevi imparare l’inglese un po’ lo imparavi a scuola, ma neanche tanto, per cui noi imparavamo l’inglese sui testi tradotti delle canzoni, ed erano traduzioni assurde, infatti io l’inglese l’ho imparato abbastanza male, però in un modo molto fantasioso, molto, così, assurdo e avventuroso. E quindi ero molto affezionato a questa casa editrice, e quando mi hanno proposto un contratto io sono stato molto felice di firmare con loro, e ho pensato che andava assolutamente finito entro il Natale, perché… primo perché il Natale, appunto, è una scadenza importante per tutta l’editoria che passa intorno ai Beatles, e poi perché quest’anno c’era una serie di anniversari che bisognava sfruttare con tutto il cinismo possibile per riuscire a vendere questo malloppo. E così è stato. Insomma, ci abbiam provato, ci sono riuscito e in realtà, ovviamente, appena firmato il contratto mi è venuto un blocco per cui per un po’ non sono più riuscito a scrivere niente, ma alla fine, in qualche modo, durante l’estate ho rimediato e, alla fine, ecco questo libro.

MM: E la domanda più importante: è bello?

LT: Mah… Beh, sì, dai. Secondo me è venuto carino. Ogni tanto, mi capita, lo riapro e mi metto anche a leggerlo, dico «ma toh, guarda, questa voglio proprio vedere dove va a parare stavolta questo qui.» Perché, alla fine, ci sono tante cose interessanti, e se stai ascoltando i Beatles ogni tanto magari ti viene la curiosità di dire «ma chissà cosa avrà detto ‘sto tizio di questa canzone». Ovviamente poteva venire meglio, eh, magari avendo più tempo, magari studiando di più l’argomento, anche se c’è un limite oltre il quale se studi troppo un argomento non riesci più a scrivere niente, perché ti rendi conto che è già stato scritto tutto e meglio, e io questa cosa coi Beatles, questo terrore coi Beatles di studiare troppo l’argomento, non ho voluto assolutamente correrlo, perché alla fine non sono mica fisica nucleare, cioè sono i Beatles, adesso, pazienza se s’è scritto qualcosa che è già stato scritto meglio in qualche altro libro non succede assolutamente niente. Chiedo scusa a tutti e il prossimo sarà ancora più bello. Grazie.

  • The Breeders, Happiness Is a Warm Gun

LT: Ho scelto di leggere la pagina su Getting Better, che è la canzone che dà anche il titolo al libro. Era un titolo, non lo so, forse pensavo che avrebbe potuto portare fortuna. Non è andata proprio così, però, eh, pazienza.
Ogni tanto ci sono citazioni dall’inglese, mi dispiace. C’è anche una parola che ho scoperto, sono andato a controllare sul Cambridge, si pronuncia “baias”, cioè i bias sono i baias, i pregiudizi, insomma.

— Leonardo Tondelli legge la pagina su Getting Better da Getting Better (sottotitolo: Le 250 migliori canzoni dei Beatles classificate, valutate, commentate)

  • The Beatles, Getting Better

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Montag: Cosa stai facendo, Linda?
Linda: Ho trovato queste cose in casa. Io non voglio di questa roba, Montag, mi fa paura.
Montag: Tu passi tutta la tua giornata davanti alla tua famiglia del televisore. Questi sono la mia famiglia.

(Fahrenheit 451; François Truffaut, 1966)

  • Bo Diddley, You Can’t Judge A Book By The Cover

E questa era la quarta puntata di 232 Celsius (circa), dove Sergio Pilu ha raccontato e letto la prima parte di Furore, un libro del 1939 di John Steinbeck, e io, che sono Marco Manicardi, ho intervistato Leonardo Tondelli su un libro del 2020 che si chiama Getting Better (sottotitolo: le 250 migliori canzoni dei Beatles classificate, valutate, commentate).

Le canzoni che avete ascoltato erano, nell’ordine:

  • Books are burning, la sigla iniziale del programma, che è degli XTC, da un disco che si chiama Nonsuch del 1992
  • Mother Of Earth, dei Gun Club da Miami del 1982
  • Sweet Thursday di Matt Costa dall’album Songs We Sing del 2005
  • The Ghost of Tom Joad di Bruce Springsteen, dal disco omonimo del 1995 (non potevamo non metterla)
  • Happiness is a Warm Gun, ovviamente dei Beatles, ma fatta dalle Breeders in un disco che si chiama Pod, del 1990
  • e poi Getting Better, dei Beatles, fatta dai Beatles, da Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band del 1967
  • la sigla finale, che state ascoltando in questo momento, è You Can’t Judge A Book By The Cover, un singolo del 1962 di Bo Diddley

Ad accompagnare le letture, invece, c’erano i primi tre movimenti della Sinfonia n.1, Oceans, di Ezio Bosso, eseguita nel 2012 dalla Filarmonica 900 del Teatro Regio Torino e diretta dallo stesso Bosso.

232 Celsious (circa), nelle persone di Sergio Pilu e Marco Manicardi, ringrazia Caterina Imbeni per la consulenza musicale, e Andrea Bentivoglio, il peraltro direttore artistico di Radio Sverso, per la professionalità.

E tornerà, molto probabilmente, con la seconda parte di Furore e altre cose interessantissime, la settimana prossima, stesso giorno, stessa ora, se tutto va bene.

A presto.
Ciao.


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