232 Celsius (circa) s1e02 – il podcast (e la trascrizione)

E questo è il podcast della seconda puntata di 232 Celsius (circa), una trasmissione sui libri, andata in onda alle 18 di venerdì 12 febbraio su Radio Sverso. Dura poco più di un’ora (circa) ed è diviso in due parti: nella prima Sergio Pilu parla di David Foster Wallace; nella seconda parte ci sono io che intervisto Elena Marinelli su un libro che si chiama Steffi Graf. Passione e perfezione, del 2020.

(su Spotify, su Google Podcast, in mp3)

E quella che segue è una specie di trascrizione della puntata, fedele al 98%, diciamo (e in mezzo ci sono anche tutte le canzoni che abbiamo trasmesso):

Stammi a sentire, Montag: a tutti noi una volta nella carriera viene la curiosità di sapere che cosa c’è in questi libri, ci viene come una specie di smania, vero? Beh, dai retta a me, Montag: non c’è niente lì. I libri non hanno niente da dire! Guarda, queste sono opere di fantasia e parlano di gente che non è mai esistita. I pazzi che li leggono diventano insoddisfatti, cominciano a desiderare di vivere in modi diversi, il che non è mai possibile.

(Fahrenheit 451; François Truffaut, 1966)

  • XTC, Books Are Burning (sigla)

Introduzione di Andrea Bentivoglio:

La città fantasma è viva. È viva nel tappeto di libri che copre l’intero pavimento di un’aula scolastica (è così viva che sembra di sentirne il dolore: avete mai camminato sopra centinaia di libri? Provate a farlo. Provate a prendere tutti i libri che avete in casa e gettarli per terra alla rinfusa coprendo le piastrelle che pulite una volta alla settimana, e poi camminateci sopra, e sentite come la carta risponde al vostro peso, come se vi stesse dicendo mi fai male; provate a farlo, e avvertite quella sensazione di colpa e ingiustizia per come state trattando quegli oggetti nei quali la nostra civiltà ha investito tutta se stessa per aiutarsi a vicenda e restare a galla).

232 Celsius (circa) è la trasmissione che Radio Sverso dedica ai libri. Quelli famosi e quelli meno, quelli scritti da gente morta e sepolta e quelli pubblicati da gente viva e vegeta. Perché a noi i libri piacciono, ci hanno spesso cambiato la vita, certamente ce l’hanno resa migliore. Quindi, visto che vi vogliamo bene, cerchiamo di rendere migliore anche la vostra.

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232 Celsius (circa), seconda puntata; prima parte, dove Sergio Pilu racconta e legge David Foster Wallace

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Il papà era sul lato della casa a reggere una porta per l’affittuario quando udì la voce della mamma levarsi acuta fra le urla del bambino. Gli fu facile accorrere, la veranda nel retro dava direttamente sulla cucina, e prima che la doppia porta si richiudesse di scatto alle sue spalle il papà aveva abbracciato l’intera scena con lo sguardo, la pentola rovesciata sulle mattonelle davanti alla stufa e il getto azzurro del becco a gas e la pozza d’acqua ancora fumante che si diramava in ogni direzione sul pavimento, il frugoletto infagottato nel pannolino in piedi rigido col vapore che esalava dai capelli e dal petto e dalle spalle porpora e gli occhi strabuzzati e la bocca spalancata che sembrava come separata dai suoni che emetteva, la mamma in ginocchio in terra che lo tamponava inutilmente con lo strofinaccio, coprendo con le sue le urla del bambino, isterica al punto da essere quasi impietrita. Il suo ginocchio e il piccolo tenero piede scalzo erano ancora immersi nella pozza fumante, e per prima cosa il papà prese il piccino per le ascelle, lo sollevò da terra e lo portò al lavello, dove buttati fuori i piatti aprì il rubinetto per far scorrere l’acqua fredda del pozzo sui piedi del bambino mentre ne raccoglieva altra nel cavo della mano e la versava o la gettava sulla testa sulle spalle e sul petto, non volendo innanzitutto più vedere il vapore esalare dal corpo, la mamma che da sopra la sua spalla invocava il Signore finché lui non la mandò a prendere degli asciugamani e a vedere se avevano della garza, il papà che si muoveva con efficienza, la sua mente maschile concentrata unicamente sullo scopo da raggiungere, ancora inconsapevole che lui si muoveva con disinvoltura o che aveva smesso di sentire le urla altissime perché sentirle lo avrebbe pietrificato rendendo impossibile fare quel che andava fatto per soccorrere la sua creatura, le cui urla avevano assunto la regolarità del respiro e si protraevano da tanto di quel tempo da essere diventate una presenza nella cucina, un’altra cosa da rimuovere al più presto. La porta laterale dell’affittuario pendeva all’esterno dal cardine superiore e oscillava appena appena al vento, e un uccello sulla quercia dall’altro lato del vialetto d’accesso sembrava osservare la porta con la testa inclinata mentre dall’interno continuavano a venire le urla. Le ustioni peggiori comparivano sul braccio e sulla spalla destri, sul petto e sulla pancia il rosso sfumava in rosa sotto l’acqua fredda e la tenera pianta dei piedi non era coperta di vesciche per quanto poteva vedere il papà, ma il frugoletto continuava a stringere i pugni e a urlare anche se forse ormai solo come reazione alla paura, in seguito il papà aveva capito di averla considerata una possibilità, il faccino gonfio e le venuzze sporgenti dalle tempie e il papà che continuava a ripetere che era lì era lì, l’adrenalina in calo mentre la rabbia contro la mamma per aver permesso che succedesse quella cosa iniziava a raccogliersi a ciuffetti nell’angolo più remoto della mente, lontana ancora ore dal giungere a espressione. Quando la mamma tornò lui si chiese se non fosse il caso di avvolgere il bambino in un asciugamano ma inzuppò l’asciugamano e l’avvolse, lo fasciò stretto stretto e tirò fuori il suo piccino dal lavello e lo depose sul bordo del tavolo della cucina per calmarlo mentre la mamma cercava di controllare la pianta dei piedi gesticolando con la mano all’altezza della bocca e pronunciando parole senza senso mentre il papà si piegava trovandosi faccia a faccia col bambino sul bordo a quadretti del tavolo a ribadire che lui era lì nel tentativo di placare le urla del frugoletto ma il bambino continuava a spolmonarsi, un suono acuto puro limpido capace di arrestarne il cuore e le minuscole labbra e le gengive ora coperte del bluastro di una fiamma bassa pensò il papà, urlando come se fosse ancora sotto la pentola rovesciata in preda al dolore. Un minuto, due così che sembravano molto più lunghi, con la mamma che a fianco del papà parlava con voce cantilenante vicino al viso del bambino e l’allodola sul ramo con la testa da un lato e il cardine che mostrava una nervatura bianca sotto il peso della porta inclinata finché il primo fil di fumo non spuntò indolente da sotto il lembo ripiegato dell’asciugamano e gli occhi dei genitori s’incontrarono sbarrati – il pannolino, che quando aprirono l’asciugamano e stesero il figlioletto sulla tovaglia a quadri e slacciarono le linguette mezzo squagliate e cercarono di toglierlo con rinnovate urla fece una certa resistenza e scottava, il pannolino del figlio bruciava sotto le mani e videro dove l’acqua era davvero caduta e si era raccolta seguitando a bruciare il loro piccino per tutto quel tempo mentre lui urlava perché lo aiutassero, cosa che non avevano fatto, non ci avevano pensato e quando lo tolsero e videro com’era ridotto la mamma disse il nome di battesimo del loro dio e si afferrò al tavolo per non cadere mentre il padre si girava scagliando un pugno nel vuoto e maledicendo se stesso e il mondo intero non per l’ultima volta mentre suo figlio ora poteva sembrare addormentato, non fosse stato per il ritmo del respiro e i piccoli inetti movimenti con le mani nel vuoto, mani grandi come il pollice di un adulto che avevano afferrato il pollice del papà nella culla mentre guardava la bocca del papà che si muoveva nel cantare, e la testa inclinata sembrava guardare al di là di lui a qualcosa con occhi che indirettamente immalinconivano il papà. Se non avete mai pianto e volete piangere, fate un figlio. Ti spezza il cuore e poi come continua un figlio è la canzone stridula che il papà torna a sentire come se la donna alla radio fosse lì con lui a guardare quello che hanno fatto, anche se qualche ora dopo quello che il papà non riuscirà a perdonarsi è quanto desiderasse una sigaretta proprio mentre facevano al bimbo un pannolino di garza e l’avvolgevano in due asciugamani intrecciati e il papà lo sollevava come un neonato con il cranio nel palmo e lo portava fuori di corsa nel camioncino infocato bruciando le ruote lungo il tragitto fino alla città e al pronto soccorso dell’ospedale con la porta dell’inquilino penzolante tutto il giorno finché il cardine non cedette ma ormai era troppo tardi, di fronte all’inevitabile e alla loro impotenza il bambino aveva imparato ad abbandonare se stesso e a guardare tutto il resto svolgersi da un punto sovrastante, e quanto era andato perso da quel momento non contava più, e il corpo del bambino si espanse e andò a zonzo e batté cassa e visse la sua vita non più in affitto, cosa fra le cose, l’anima della sua persona un tanto di vapore lassù in alto, che cade come pioggia e poi risale, il saliscendi del sole uno yo-yo.

  • The Mountain Goats, Philippians 3:20-21

Il racconto che vi ho letto si intitola Incarnazioni di bambini bruciati. Lo ha scritto David Foster Wallace, che è nato a Ithaca, il 21 febbraio 1962 ed è morto a Claremont il 12 settembre 2008. È uno scrittore americano. Per dire chi è usando un numero accettabile di parole prendo qualche riga scritta da David Lipsky, al quale è capitata l’inaspettata fortuna di passare con lui una settimana in giro per gli Stati Uniti:

Promosso per tutte le superiori con il massimo dei voti, ha giocato a football, ha giocato a tennis, ha scritto una tesi in filosofia e un romanzo ancora prima di laurearsi ad Amrhest, ha seguito un corso di specializzazione in scrittura creativa, ha pubblicato il romanzo, ha fatto sì che una città intera di editor e scrittori bercianti, sgomitanti e pronti a gambizzare chiunque si innamorasse di lui perdutamente. Ha pubblicato un romanzo di mille pagine, ha ricevuto l’unico premio del paese che si assegna a chi viene riconosciuto un genio, ha scritto articoli che restituiscono meglio di qualunque altra cosa la sensazione di ciò che significa essere vivi al giorno d’oggi, ha accettato una cattedra speciale di scrittura creativa presso un’università californiana, si è sposato, ha pubblicato un altro libro e si è impiccato all’età di quarantasei anni.

Ne parlo come se fosse vivo, perché per me, per quanto stupido e squallidamente romanticheggiante possa suonare, lo è ancora, come capita a tutte quelle persone alle quali ti sei legato in un modo così profondo che non credevi nemmeno che fosse possibile e poi a un certo punto i casi della vita ti portano via. Aveva solo pochi anni più di me. Non lo potrei definire un amico, né un fratello maggiore. Era uno che, molto semplicemente, e le cose così semplici sono naturalmente le più tremendamente difficili, sapeva spiegarmi il mondo, quel pezzo di mondo nel quale io e lui e milioni di altri ci siamo trovati a stare nello stesso momento, e quindi buona parte della mia vita, delle mie azioni, dei miei pensieri. Purtroppo, vivo non lo è più da tanto tempo, e mi manca; per essere più precisi mi manca l’idea che arriverà un altro suo libro, un nuovo suo articolo e con esso quella sensazione indefinibile di scoperta di qualcosa che, come scrisse in un pezzo diventato famoso ben più di quanto avrebbe gradito usando un bel modo di dire della lingua inglese, è nascosto in bella vista sotto gli occhi. E così, alla fine, mi tocca parlarne al passato.

Una prima cosa che sapeva fare con una abilità mostruosa era osservare la gente fin nei minimi dettagli e saperli poi squadernare con la precisione da microchirurgo di uno che possiede il dono sublime della conoscenza e dell’uso della parola. Prendete questa riga che sta in Verso l’Occidente l’impero dirige il suo corso:

D.L. era estremamente magra, magra in un modo che sembrava indicare non delicatezza, ma una sorta di avara ritrosia a estendersi nello spazio circostante.

Oppure:

Siamo valorosi in contumacia.

O ancora:

Il modo migliore per descrivere il contegno di Scott Peterson è questo: perennemente in posa per una fotografia che nessuno sta scattando.

Avete di fronte non solo D.I. o Scott Peterson, ma tutta un’umanità, composta per primi da voi stessi. che conoscete alla perfezione, solo che non siete mai stati capaci di definirla. Oppure: avete mai pensato all’esistenza del Sorriso Professionale come a qualcosa che ha una consistenza identica a quella di una persona ed è quindi dotato di una specie di – vogliamo usare questa parola? Dai – una specie di anima? Lui lo fece, in quel piccolo capolavoro che lo fece conoscere a mezzo mondo e che ancora oggi è il libro più consigliato per iniziare a capire chi era, Una cosa divertente che non farò mai più:

Perché i datori di lavoro e i superiori costringono i loro inferiori ad allenarsi nel Sorriso Professionale? Sono forse l’unico cliente in cui grandi dosi di sorrisi del genere producono disperazione? Sono l’unica persona al mondo a essere convinta che la causa del numero crescente di fatti di cronaca in cui persone all’apparenza assolutamente normali cominciano a sparare con pistole automatiche nei centri commerciali, nelle agenzie di assicurazione, nelle cliniche private e nei McDonald’s dipende anche dal fatto che posti del genere sono ben noti vivai di propagazione del Sorriso Professionale? Chi credono di prendere in giro con il Sorriso Professionale? E tuttavia siamo al punto che anche l’assenza di Sorriso Professionale è fonte di disperazione. Tutti quelli ai quali è capitato di comprare un pacchetto di gomme da un tabaccaio di Manhattan, o di chiedere una scatola con la scritta FRAGILE all’ufficio postale di Chicago o un bicchiere d’acqua a una cameriera di Boston conoscono bene l’effetto di abbattimento morale di uno sguardo corrucciato dell’addetto al servizio, e cioè l’umiliazione e il risentimento che si provano per un Sorriso Professionale negato.

Da dove gli veniva quella capacità di osservazione del mondo esterno? Io non lo so, sono solo un suo lettore. Ma ho la sensazione che lui sapeva descrivere e spiegare così bene gli altri perché sapeva descrivere e spiegare con una maestria che doveva essere persino dolorosa prima di tutto sé stesso:

Ora, io ho trentatré anni, e sento di aver già vissuto tanto e che ogni giorno passa sempre più velocemente. Ogni giorno sono costretto a compiere una serie di scelte su cosa è bene o importante o divertente, e poi devo convivere con l’esclusione di tutte le altre possibilità che quelle scelte mi precludono. E comincio a capire che verrà un momento in cui le mie scelte si restringeranno e quindi le preclusioni si moltiplicheranno in maniera esponenziale finché arriverò a un qualche punto di qualche ramo di tutta la sontuosa complessità ramificata della vita in cui mi ritroverò rinchiuso e quasi incollato su di un unico sentiero e il tempo mi lancerà a tutta velocità attraverso vari stadi di immobilismo e atrofia e decadenza finché non sprofonderò per tre volte, tante battaglie per niente, trascinato dal tempo. È terribile. Ma dal momento che saranno proprio le mie scelte a immobilizzarmi, sembra inevitabile, se voglio diventare maturo, fare delle scelte, avere rimpianti per le scelte non fatte e cercare di convivere con essi. Non così sulla lussuosa e immacolata m.n. Nadir. Nella crociera extralusso 7NC, io pago per ottenere il privilegio di consegnare nelle mani di esperti professionisti non soltanto la responsabilità della mia esperienza ma anche dell’interpretazione di questa esperienza: per esempio il mio piacere. Il mio piacere verrà efficacemente e saggiamente gestito per sette notti e sei giorni e mezzo, proprio come mi è stato promesso nella pubblicità della crociera. Anzi, come qualcosa che, in qualche modo, era già un fatto compiuto nel momento in cui leggevo la pubblicità, con il suo imperativo di seconda persona plurale, che rende il tutto non una promessa ma una vera e propria profezia. A bordo della Nadir, così come annuncia pomposamente la brochure a pagina 23, farò (caratteri in oro): «…qualcosa che non fate da molto, moltissimo tempo: Assolutamente Niente». Quanto tempo è che non fate Assolutamente Niente? Per quanto riguarda me, lo so con precisione. So con precisione quanto tempo è passato dall’ultima volta che ogni mio bisogno è stato esaudito senza possibilità di scelta da qualche forza esterna, senza che dovessi farne richiesta o addirittura ammettere di avere alcun bisogno. E anche quella volta galleggiavo nell’acqua, in un liquido salato, e caldo, ma poi nemmeno troppo – e se per caso ero cosciente, sono sicuro che non avevo paura e che mi stavo divertendo un sacco e che avrei spedito cartoline dicendo a chiunque «vorrei che fossi qui».

  • BLAMMOS, Living with David Foster Wallace

David scrisse di moltissime cose: come recita il titolo italiano di una sua raccolta di saggi e reportage, Tennis, tv, trigonometria, tornado. E poi teoria matematica, rap, campagne elettorali, industria del porno (la cui presenza nella società occidentale è mirabilmente riassunta in questa frase perfetta:

Domandarsi se gli artefici della Costituzione statunitense potessero, nella loro più sfrenata immaginazione, prevedere cose come Vergini anali III o 900-666-FUCK mentre pensavano all’espressione che volevano proteggere è ovviamente una faccenda spinosa, e trascende l’ambito di questo articolo. 

Scrisse soprattutto, per me, di cosa significava stare al mondo. Cosa significava per un abitante di un certo pezzo di questo pianeta, una persona discretamente acculturata, discretamente benestante, discretamente nutrita, cercare di cavarsela. Lo fece scrivendo un libro sterminato incentrato essenzialmente sul dolore. Quel libro famoso si intitola Infinite Jest e dentro c’è questa mezza paginetta:

Che le attività noiose diventano perversamente molto meno noiose se ci si concentra molto su di esse. Che se un numero sufficiente di persone beve caffè in una stanza silenziosa, è possibile sentire il rumore del vapore che si leva dalle tazze. Che a volte agli esseri umani basta restare seduti in un posto per provare dolore. Che la vostra preoccupazione per ciò che gli altri pensano di voi scompare una volta che capite quanto di rado pensano a voi. Che esiste una cosa come la cruda, incontaminata, immotivata gentilezza.


Che Dio – a meno che non siate Charlton Heston, o fuori di testa, o entrambe le cose – parla e agisce interamente tramite degli esseri umani, ammesso poi che ci sia un Dio. Che Dio potrebbe inserire la questione se crediate nell’esistenza di un dio o meno piuttosto in basso nella lista delle cose sul vostro conto che a lui/lei/esso interessano.

[…] a volte agli esseri umani basta restare seduti in un posto per provare dolore.

Ricordate che la mediocrità dipende sempre dal contesto.

Nessun singolo istante di quel dolore era insopportabile. Eccolo qua un secondo: lo aveva sopportato. Insopportabile era il pensiero di tutti gli istanti in fila, uno dietro l’altro, splendenti.

«La verità alla fine vi renderà liberi, ma solo dopo avervi sistemati ben bene».

E scrisse poi di un’altra cosa che conosciamo tutti benissimo ma non sappiamo mai descrivere per davvero: la noia. Non quella di Moravia, nemmeno quella di Vasco Rossi. Piuttosto la noia burocratica, che è una cosa che fa da collante a un milione di nostri gesti quotidiani, in fondo a buona parte della nostra vita sociale. Questo lo fece ne Il Re pallido, che non finì perché si impiccò prima di concluderlo e uscì postumo fra tante polemiche. Io, per me, sono contento che l’abbiano pubblicato, perché è stato curato da gente che lo conosceva bene e gliene voleva altrettanto, e grazie a loro non siamo stati privati di pezzi come questo:

Il vero motivo per cui i cittadini statunitensi erano/sono all’oscuro di questi conflitti, cambiamenti e interessi in gioco è che l’argomento politica e amministrazione fiscale è noioso. Enormemente, spettacolarmente noioso. É impossibile sopravvalutare l’importanza di questo aspetto. Considerate, dalla prospettiva dell’Agenzia, i vantaggi di un insieme così noioso, arcano, soporifero. L’Agenzia delle Entrate è stata uno dei primissimi enti governativi a capire che certe caratteristiche contribuiscono a isolare dalla protesta pubblica e dall’opposizione politica, e che la monotonia astrusa in realtà è uno scudo molto più efficace della segretezza. Perché il grande svantaggio della segretezza sta nel fatto che è interessante. La gente è attratta dai segreti; non può farne a meno.

L’ho imparato ad appena ventuno o ventidue anni, al Centro controlli regionali dell’Agenzia delle Entrate di Peoria, dove per due estati ho fatto il ragazzo del carrello. E stato questo, secondo chi ha visto in me la stoffa per lavorare all’Agenzia, che mi ha permesso di bruciare le tappe, capire questa verità a un’età in cui quasi tutti cominciano appena a sospettare l’abbiccì della fase adulta: che la vita non ti deve niente; che la sofferenza assume tante forme; che nessuno terrà mai a te quanto tua madre; che il cuore umano è un fesso. Ho imparato che il mondo degli uomini così com’è oggi è una burocrazia. É una verità ovvia, certo, per quanto ignorarla provochi grandi sofferenze. Ma ho anche scoperto, nell’unico modo in cui un uomo impara sul serio le cose importanti, la vera dote richiesta per fare strada in una burocrazia. Per fare strada sul serio, dico: fai bene, distinguiti, servi. Ho scoperto la chiave. La chiave non è l’efficienza, o la rettitudine, o l’intuizione, o la saggezza. Non è l’astuzia politica, la capacità di relazione, la pura intelligenza, la lealtà, la lungimiranza o una qualsiasi delle qualità che il mondo burocratico chiama virtù e mette alla prova. La chiave è una certa capacità alla base di tutte queste qualità, più o meno come la capacità di respirare e pompare il sangue sta alla base di tutti i pensieri e le azioni. La chiave burocratica alla base di tutto è la capacità di avere a che fare con la noia. Di operare efficacemente in un ambiente che preclude tutto quanto è vitale e umano. Di respirare, per così dire, senz’aria. La chiave è la capacità, innata o acquisita, di trovare l’altra faccia della ripetizione meccanica, dell’inezia, dell’insignificante, del ripetitivo, dell’inutilmente complesso. Essere, in una parola, inannoiabile. Ho conosciuto, tra il 1984 e l’85, due uomini così. É la chiave della vita moderna. Se sei immune alla noia, non c’è letteralmente nulla che tu non possa fare.

  • Ride, Literal Alice

Scrisse, infine, di scrittura. Dicono che fosse un insegnante straordinario, di quelli che ti accompagnano per tutta la vita. Non fatico a crederlo, perché non era soltanto un dio del vocabolario, della sintassi e della grammatica: era uno, soprattutto, che alla gente, agli altri, ci teneva. Vedeva nei libri un antidoto contro la solitudine, che poi è il titolo di una bella raccolta di sue interviste, e contro l’uso metodico dell’ironia come strumento per tenersi alla larga dal nocciolo delle cose, quello che non puoi sempre affrontare ridendo o, per essere più precisi, sogghignando. Lo scrisse, ad esempio, in Tennis, tv, trigonometria, tornado e lo chiarì in una bella intervista:

E state attenti: l’ironia ci tiranneggia. La ragione per cui l’ironia onnipresente nella nostra cultura è allo stesso tempo così potente e così insoddisfacente è che chi usa l’ironia è impossibile da inchiodare. Tutta l’ironia negli Stati Uniti è basata su un implicito «non sto dicendo sul serio». Quindi che cosa dice seriamente l’ironia, in quanto modello culturale? Che è impossibile dire qualcosa sul serio? Che è terribile che sia così, ma svegliatevi e guardate in faccia la realtà? Più probabilmente, penso, l’ironia di oggi finisce col dire: «Oddio come sei banale a chiedermi cosa voglio dire davvero». Chiunque abbia l’eretica sfacciataggine di chiedere a un ironista che cosa sostiene veramente finisce per sembrare una persona isterica o pedante. E in questo sta l’oppressione dell’ironia istituzionalizzata, di una rivolta troppo riuscita; la capacità di interdire la domanda senza occuparsi del suo oggetto, nel momento in cui viene esercitata, non è altro che dittatura. È la nuova giunta militare, che usa gli stessi strumenti che sono serviti a smascherare il suo nemico per proteggere se stessa.

L’ironia ha svolto una funzione molto utile, facendo piazza pulita di un sacco di luoghi comuni e falsi miti, nella cultura americana, che non servivano più a nulla; ma purtroppo non ci ha lasciato niente da cui ricominciare a costruire, se non un atteggiamento di sufficienza sarcastica, di nichilismo autoreferenziale e di avidità materiale.

Come ci si salvava da questa cosa? Quale era l’antidoto, contro la solitudine e contro il prendere le cose sul serio quando questo serve a dare senso alla vita? Scrivendo e leggendo, secondo lui: perché quelle due cose lì ti mettevano in diretto contatto con il resto del mondo, con gli uomini e le donne che, come te, provavano a tirar fuori qualcosa di onesto da condividere con gli altri:

ci sono parecchi libri che dopo averli letti mi hanno lasciato per sempre diverso da com’ero prima, e penso che tutta la buona letteratura in qualche modo affronti il problema della solitudine e agisca come suo lenitivo.

Ma c’è qualcosa, quantomeno nei romanzi e nei racconti, che ti permette di entrare in intimità con il mondo, e con un’altra mente, e con certi personaggi, in un modo in cui non puoi proprio farlo nel mondo reale. Io non so cosa stai pensando. Non so molto di te, così come non so molto dei miei genitori, della mia ragazza o di mia sorella, però un brano di letteratura che sia davvero sincero ci permette di entrare in intimità con… non voglio dire con la gente, ma ci permette di entrare in intimità con un mondo che assomiglia al nostro quanto basta, a livello di dettagli emotivi, perché le varie sensazioni che proviamo possano poi riverberarsi anche nel mondo reale.

La letteratura si occupa di cosa vuol dire essere un cazzo di essere umano. Se uno parte, come partiamo quasi tutti, dalla premessa che negli Stati Uniti di oggi ci siano cose che ci rendono decisamente difficile vivere da veri esseri umani, allora forse metà del compito della letteratura è mettere in scena le cause di questa difficoltà. Ma l’altra metà è mettere in scena il fatto che nonostante tutto siamo ancora esseri umani. O possiamo esserlo.

Capite perché uno così manca? Per un motivo che non è facile da ammettere, e che ancora una volta fu lui a spiegare con quella che non saprei come definire se non esattezza. Lo fece nel pomeriggio dell’11 settembre, quell’11 settembre, che lui trascorse nel salotto della signora Thompson, a Bloomington Illinois, guardando con un occhio le immagini che arrivavano dalle torri gemelle di New York abbattute dagli aerei di Osama Bin Laden e con l’altro quell’anziana, semplice signora del Midwest che, insieme alle sue vicine di casa, cercava di capire, di farsi una ragione di ciò che stava succedendo. Lo fece senza ironia e nel descrivere la signora Thompson descrisse, credo del tutto involontariamente, se stesso:

La gente davvero perbene, la gente innocente, può mettere a dura prova.

  • The Decemberists, Calamity Song

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232 Celsius (circa), seconda puntata; seconda parte, dove Marco Manicardi intervista Elena Marinelli.

***

Non ammette repliche, il gioco di Steffi Graf.
Non crede nella sconfitta, ma solo nella passione, una passione viscerale, che ribolle nel profondo e non risale mai in superficie, come un non detto da lasciar maturare.

Così recita la quarta di copertina di Steffi Graf. Passione e perfezione, ultimo libro di Elena Marinelli, pubblicato da (è difficilissimo da dire) 66thand2nd nel 2020.
E il risvolto di copertina di Steffi Graf. Passione e perfezione dice che:

Elena Marinelli è nata in Molise vicino a un passaggio a livello, ma da un po’ di anni vive a Milano. Il terzo incomodo, suo romanzo d’esordio, è stato pubblicato nel 2015 da Baldini&Castoldi. Scrive di tennis femminile sull’Ultimo uomo e cura il podcast sul tennis Volée.
Legge i libri degli altri per ilLibraio.it.

Marco Manicardi: Ciao Elena, perché hai scritto Steffi Graf?

Elena Marinelli: Ho scritto Steffi Graf perché non c’era un libro su Steffi Graf, in italiano, e mi sembrava uno spreco vista la campionessa e vista la storia. L’ho scritto anche perché è la mia prima campionessa del tennis, quella che ho seguito per prima e, la terza ragione, non meno importante, è che me l’hanno chiesto.

MM: Dove, come e quando l’hai scritto?

EM: Ho iniziato a scriverlo circa un anno fa, a gennaio più o meno dell’anno scorso, un po’ prima della prima quarantena. L’ho scritto principalmente a Milano, a casa mia, o meglio: nella prima casa in Porta Venezia. E poi l’ho finito… in realtà l’ultima parte l’ho finita in Molise, a Casacalenda, in provincia di Campobasso, a casa dei miei, guardando uno spettacolo meraviglioso che sono le colline e la mia ferrovia. E poi l’ultimissima parte, forse proprio l’ultimo capitolo, l’ho di nuovo scritto a Milano, ma in un’altra casa che è alla Martesana, quindi è un libro che mi appartiene molto in quanto a luoghi, visto che è stato scritto nelle mie due case, quella milanese e quella molisana. L’ho scritto al computer, totalmente, non ho messo una parola sulla carta. E quindi, sì, l’ho scritto nel 2020, ho iniziato prima della prima quarantena e l’ho finito quando si pensava che fossimo usciti da tutto. E invece no.

MM: E infine la domanda importantissima: è bello?

EM: Sì, è molto bello. Almeno, dicono così. La maggior parte di quelli che l’hanno letto e che mi hanno parlato mi hanno detto che è molto bello, a tratti, in alcuni punti è davvero bello e… per me è bello. Sì.

  • Hugh Laurie, I’m in Love With Steffi Graf

Steffi Graf. Passione e perfezione di Elena Marinelli comincia così:

— Elena Marinelli legge il prologo di Steffi Graf. Passione e perfezione —

  • I Cani, Hipsteria

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Montag: Dietro ognuno di questi libri c’è un uomo. È questo che mi interessa. Lasciami in pace e torna a letto.

Linda: Io non ho sonno.
Montag: Hai le tue pillole, no?

(Fahrenheit 451; François Truffaut, 1966)

  • Hüsker Dü, Books About UFOs

Questa era la seconda puntata di 232 Celsius (circa), dove Sergio Pilu ha letto e raccontato David Foster Wallace, e io, che sono Marco Manicardi, ho intervistato Elena Marinelli su un libro che si chiam Steffi Graf. Passione e perfezione, del 2020

Le canzoni che avete ascoltato erano, nell’ordine:

  • Books are burning, degli XTC, da un disco che si chiama Nonsuch del 1992 e che è diventata più o meno la nostra sigla
  • Philippians 3:20-21, un pezzo dei Mountain Goats da un disco che si chiama The Life of the World to Come del 2009
  • Living with David Foster Wallace, dei BLAMMOS, da The album we can’t afford to release that you can’t afford to miss del 2011
  • Literal Alice dei Ride, da Weather Diaries del 2017
  • Calamity Song dei Decemberists, da un disco che si chiama The King Is Dead, del 2010
  • I’m in Love With Steffi Graf, di Hugh Laurie, che poi è il Dr. Gregory House, credo del 2006
  • e Hipsteria dal sorprendente album d’esordio de I Cani del 2011
  • la sigla finale, che state ascoltando ora, è Books About Ufos degli Hüsker Dü, da New Day Rising del 1985.

E infine, l’accompagnamento alle letture era preso da una versione strumentale di Dark Side Of The Moon dei Pink Floyd, anche se non ho idea di chi l’abbia eseguito, nel caso chiedete a Sergio che è più ferrato di me sull’argomento.

232 Celsious (circa), nelle persone di Sergio Pilu e Marco Manicardi, ringrazia Caterina Imbeni per la consulenza musicale e Andrea Bentivoglio, il peraltro direttore artistico di Radio Sverso, per la possibilità concessa

E tornerà, molto probabilmente, la settimana prossima, stesso giorno, stessa ora, se va tutto bene.

A presto.
Ciao.


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