7 luglio

Dieci anni fa, avevo appena 34 anni, ero con mio nonno, Corrado, fuori da un bar dove i miei genitori avevano organizzato un piccolo rinfresco per festeggiare la laurea in Scienze dell’Educazione di mia sorella, all’Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, nella sede di Reggio Emilia; mentre eravamo lì, io e mio nonno Corrado, che parlavamo del più e del meno, a un certo punto lui si era fatto un po’ pensieroso e mi aveva detto: «Oh, Marco, questa è la piazza dove hanno ammazzato quei manifestanti.»
«Sì, nel 1960,» gli avevo subito risposto io, prendendo l’occasione al volo, che mi piaceva sempre molto quando mio nonno cominciava a parlare delle sue cose passate, del PCI, delle manifestazioni, degli scioperi, eccetera, e dovevo aver anche provato a canticchiare il ritornello dei Morti di Reggio Emilia, così, per darmi un tono.
Lui aveva annuito, aveva alzato un braccio e aveva indicato un punto preciso della piazza.
«Io ero là,» mi aveva detto, «eravamo in fondo al corteo perché noi che venivamo dai paesi più lontani eravamo sempre gli ultimi. Non mi ricordo se ho sentito le schioppettate, ma mi ricordo che a un certo punto si son messi tutti a correre verso di noi, scappavano via.»

Delle volte coi nonni funziona così, quando invecchiano, che si ricordano le cose solo quando c’è qualcosa che gli accende una lampadina in testa che magari era spenta da un bel po’, perché che fosse stato lì il giorno della strage, mio nonno, Corrado, non me l’aveva mica mai detto.
Allora mi ero messo a fare un rapido calcolo: lui era del ’25, era nato in dicembre, i morti di Reggio Emilia erano del 7 luglio del 1960; quindi quel giorno là doveva avere appena 34 anni.
E mentre deglutivo e mi veniva la pelle d’oca, anche se era un giorno abbastanza caldo, mio nonno, Corrado, era già rientrato nel bar, al rinfresco della laurea di mia sorella in Scienze dell’Educazione all’Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, nella sede di Reggio Emilia, per provare a mangiare un pasticcino o due in più, anche se gli avevano detto di limitarsi coi dolci per via del diabete, della pressione e di tutto il resto.
Ma era fatto così, mio nonno Corrado, era sempre stato un gran goloso.

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Questa è la Tregua? (un discorso)

[E questo è all’incirca il discorso che ho fatto domenica sera durante la serata finale dell’AiaFolkFestival 2023 nel Parco della Resistenza di Novi di Modena. Dopo di me hanno suonato Eugenio Finardi, Mirko Signorile e Raffaele Casarano, e mentre scendevo dal palco, per la scaletta che portava dietro le quinte, e loro salivano, mi han fatto i complimenti. A momenti cadevo giù. Buona lettura.]

Buonasera,
Si sente se parlo così?
Bene.

Allora, ciao, io mi chiamo Marco Manicardi, e sono un novese. O meglio: lo sono stato per i primi 26 anni della mia vita, dopo sono andato ad abitare a Carpi per questioni d’amore. Abito lì da 18 anni e sono 18 anni che la mia compagna mi dice che secondo lei mi ha tolto il selvatico. Chissà se ha ragione.

Ma comunque, alcuni di voi mi conoscono perché siamo cresciuti insieme, altri perché sono il figlio di Jules e della Francesca o perché sono il nipote di Corrado e dell’Ada; altri ancora, forse, mi conoscono perché ormai mi capita da un po’ di anni di dire delle cose all’AiaFolkFestival di Novi di Modena. Di solito funziona così: sul finire della primavera, verso l’ora di pranzo di un giorno lavorativo, quando le difese sono un po’ basse e sto magari preparando da mangiare per mio figlio che torna a casa da scuola, suona il telefono. Prima era la Giulia Contri, a telefonare, adesso è Diego Zanotti. Mi chiamano e mi chiedono, senza giri di parole, se mi va di dire qualcosa in una serata come questa dell’AiaFolkFestival, e io, tutte le volte, vorrei dire che non lo so, che grazie ma non saprei cosa inventarmi, che non sono un professionista e che, insomma, mi dispiace ma quest’anno proprio non ci riesco…
E invece poi, alla fine, dico di sì.
Si fa un po’ fatica a dire di no quando ti chiamano in rappresentanza del Coro delle Mondine di Novi di Modena, o almeno io faccio fatica. Devo avere ancora addosso un po’ di selvatico.
E quindi, niente, eccomi qua anche stasera. All’AiaFolkFestival 2023.
Mi han fregato un’altra volta.

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2 luglio: un “reading sulla pace” all’AiaFolkFestival

E domenica 2 luglio, cioè tra qualche giorno, al Parco della Resistenza di Novi di Modena, cioè il mio natìo borgo selvaggio, c’è la serata finale dell’AiaFolkFestival, un festival bellissimo organizzato tutti gli anni dal Coro delle Mondine di Novi di Modena e da altra bravissima gente del posto. Ed è un po’ che mi chiamano tutti gli anni a dire delle cose, all’AiaFolkFestival di Novi di Modena, e anche quest’anno mi hanno telefonato e mi hanno detto che il tema del festival è “la pace” e mi hanno chiesto se potevo fare “un reading sulla pace”. Io quando mi chiedono queste cose sono sempre un po’ in imbarazzo, e mi sembra sempre di essere un impostore, ma insomma, ai novesi e al Coro delle Mondine di Novi di Modena non riesco a dire di no, quindi succede questa cosa che domenica 2 luglio, più o meno alle 21:00, faccio un “reading sulla pace” cui non ho ancora dato un titolo. Se me ne viene uno nei prossimi giorni lo scrivo, altrimenti lo dico direttamente sul palco domenica sera.

La cosa che mi fa tremare smodatamente l’orlo delle mutande, però, è un’altra, e cioè che dopo di me, dalle 21:30, sullo stesso palco, suoneranno Eugenio Finardi con Raffaele Casarano e Mirko Signorile nell’EUPHONIA Suite Tour 2023, e quindi è come se io aprissi il loro concerto, che è una cosa che, l’ho già detto prima, mi fa tremare l’orlo delle mutande e un po’ mi spacca anche la testa.

Comunque, se venite, e anche se il mio “reading sulla pace” sarà una cosa tutto sommato così così, poi dopo ci sarà Eugenio Finardi quindi la serata in un certo qual modo sarà salva.
Non so come funzioni l’Euphonia Suite Tour, ma se fanno anche qualche pezzo storico, magari nei bis, tipo Scimmia o Giai Phong, ecco, forse piangerò come una vite tagliata. Speriamo, dai.
Ciao.

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Trentasei anni fa

Era il 7 giugno del 1987, avevo otto anni e dormivo dai nonni insieme a mio papà. Erano le quattro o le cinque del mattino, mi ero svegliato perché c’era del trambusto che veniva dal piano di sotto, ero sceso dal letto, mi ero infilato le ciabattine e affacciandomi alle scale avevo visto mio papà che era già vestito per uscire, stava prendendo le chiavi della macchina.
«Papà, posso venire anch’io?» Gli avevo chiesto.
«No,» aveva risposto mio papà, «devi andare a scuola, torna a letto.»
Qualche ora dopo ero in classe, in seconda elementare, erano gli ultimi giorni poi sarebbero iniziate le vacanze. Avevo aspettato che la maestra finisse di fare l’appello, poi avevo alzato la mano.
«Marco, cosa c’è?» Aveva chiesto la maestra.
«Devo dire una cosa,» Avevo risposto.
«Va bene, dilla pure.»
«Stanotte è nata mia sorella.»
E tutta la classe, mi ricordo, si era messa ad applaudire.

Dopo, al pomeriggio, mio papà era tornato a casa, aveva mangiato qualcosa, mi aveva caricato in macchina e mi aveva portato all’ospedale di Carpi. C’era da attraversare un corridoio che mi ricordo molto lungo, poi si entrava in una stanza divisa a metà da un vetro. Dall’altra parte del vetro c’erano due o tre incubatrici con dentro dei bambini molto ma molto piccoli. Io arrivavo a vederli solo in punta di piedi, col naso appiccicato al vetro, e mentre ero lì che guardavo senza saper bene come stare e cosa fare, mio papà con un dito mi aveva indicato una delle incubatrici.
«È quella lì.»

Allora non avevo ben capito il perché fossero tutti così agitati e pieni d’ansia, invece adesso, che sono papà anch’io, quando ci ripenso mi viene un po’ il magone. Mia sorella era un cosino piccolino, tutto scuro, quasi viola, rannicchiato a occhi chiusi dentro una teca di vetro. Era nata prima del previsto, un po’ troppo per poter essere fuori pericolo, e per qualche settimana andavamo là tutte le sere per vedere se tutto procedeva come doveva procedere. Cioè andavamo a vedere se era ancora viva.

E adesso mia sorella compie trentasei anni.
Io ne ho quarantaquattro e pian piano va a finire che diventiamo coetanei.
Ci penso e mi viene da dire solo una cosa banalissima, ma che comunque è abbastanza vera e quindi la dico lo stesso: «vacca d’un cane, come passa il tempo.»

Auguri, sorellina.
Avanti così.

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Softer Than Velvet (la trascrizione)

[Questa è più o meno la trascrizione di quello che è successo sabato 3 giugno al Coccobello di Carpi. È stato molto bello, se me lo chiedete.]

Una band sconosciuta di quattro elementi salì sul palco per la prima volta l’11 dicembre del 1965 nel Summit High School Auditorium di Summit, New Jersey. Nessuno dei presenti avrebbe potuto immaginare l’eredità che quella band avrebbe lasciato. Il nome della band era VELVET UNDERGROUND.

Oggi, 57 anni e mezzo (circa) dopo l’11 dicembre 1965:

  • Franco Ori dipingerà dal vivo l’universo dei Velvet Underground
  • Giancarlo Frigieri suonerà i Velvet Underground
  • e Marco Manicardi (che poi sono io) leggerà parole di Lou Reed, John Cale, Sterling Morrison, LaMonte Young, Rosebud, Paul Morrissey, Ronnie Cutrone, Danny Fields e Billy Names, prese da un libro che si chiama Please Kill Me

in uno spettacolo che prende il nome di SOFTER THAN VELVET.
Lo scopo di questo spettacolo non è l’intrattenimento.

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3 giugno: Softer Than Velvet (al Coccobello)

L’11 dicembre del 1965 nel Summit High School Auditorium di Summit, New Jersey, USA, una band di quattro elementi salì sul palco per la prima volta. Avevano un nome strano e conturbante: VELVET UNDERGROUND.
In occasione 57esimo anniversario (e mezzo, circa) dal primo live dei Velvet Underground, il 3 giugno 2023, al Coccobello, nel Cortile o Chiostro di San Rocco a Carpi, in provincia di Modena, Giancarlo Frigieri (noto cantautore locale) suonerà e canterà dal vivo brani dei Velvet Underground; al suo fianco, dove riuscirà ad appoggiare il cavalletto, Franco Ori (noto pittore locale) dipingerà dal vivo quadri a tema Velvet Underground, mentre, non troppo distante, tanto tiene poco posto, Marco Manicardi (poco noto lettore locale) leggerà brani da libri che parlano dei Velvet Underground.

Tutto ciò prende il nome particolarmente fantasioso di SOFTER THAN VELVET.
E queste sono alcune domande frequenti cui vogliamo rispondere prima di cominciare:

Sarà una cosa molto lunga? Un paio d’ore.
Ci saranno pezzi dalla carriera solista di Lou Reed? No.
E di John Cale? Neanche.
Farete <il pezzo dei VU che mi piace tanto>? Certo.
Dopo posso comprare i quadri di Franco Ori? Sì.
Sarà un bello spettacolo? Ve lo consigliamo.
Si può bere e/o fumare durante? Si può.
E in caso di pioggia? Vediamo.
C’è l’evento su facebook? Una specie.
Bravi. Grazie.
Ciao.

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Oggi

Oggi è l’undicesimo anniversario dell’unica volta che mi è servito davvero Twitter.

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Don’t Panic

[Oggi è il #towelday e quella che segue è una cosa che posto tutti gli anni, il 25 di maggio, quando mi ricordo.]

Volete sapere qual è la risposta alla domanda fondamentale sulla vita, l’universo e tutto quanto? Adesso ve la dico.
C’è una foto (la appiccico in fondo al racconto, portate pazienza) che mi vede esultante, sedicenne e pischello in braghette da ciclista, maglietta attillata della Ciclistica Novese Confezioni Carsil, caschetto aerodinamico ben allacciato e occhiali Briko con le lenti “a mosca” come andavano di moda in quegli anni là, gli anni novanta. Quando la faccio vedere in giro, di solito, dico sempre: «Ecco, qui ero sullo Stelvio».
Non è mica vero: dovevamo ancora salire.
Eravamo io e mio padre con le bici, e mio nonno col furgone che ci seguiva. E poi, sì, c’era lo Stelvio da fare. Lo Stelvio, che non finiva mai.
E quindi, poco dopo aver scattato quella foto, avevamo preso le bici, io e mio padre, e mio nonno era salito sul furgone ed eravamo partiti. Il racconto che segue, che metto tutto al presente per rendere meglio l’idea e la fatica, se ci riesco, inizia al decimo tornante; prima avevamo fatto qualche chilometro di pianura per scaldarci un po’, e nove tornanti erano già andati via abbastanza lisci.
Ma tutto crolla improvvisamente quando…

***

… al decimo tornante sono già da solo, mio padre si è staccato e alla fine me lo vedrò arrivare dietro, sul furgone con mio nonno.

Al ventesimo tornante gli alberi cominciano a diventare sempreverdi. O così mi sembra.

Al venticinquesimo, quando tiro il manubrio con le mani per farmi forza, la ruota davanti si stacca dall’asfalto, la pendenza è al dieci percento. La maglietta è bagnata, ho finito la prima borraccia con l’acqua e ho mangiato tutte le barrette di cioccolata che avevo messo nei taschini della maglia prima di partire. E un po’ bestemmio, ma solo un po’. Dei diobono, diciamo.

Al trentesimo tornante mi raggiunge un tedesco sui vent’anni, mi vede in difficoltà e prova a spingermi con la mano sul culo, è abbastanza fresco e pimpante e vuol fare conversazione con me, ma tanto io il tedesco non lo so, e so poco anche l’inglese, e poi sono troppo occupato a prendere fiato per parlare. Lui mi regala una barretta, tipo un muesli o una del genere, e io ci provo, a masticarlo, ma non ho più una goccia di saliva per mandare giù del riso soffiato e colloso, e allora lo sputo. Il tedesco sembra rimanerci male, non sono sicuro, ma sembra così. Comunque si alza sui pedali e mi stacca senza salutare. Un po’ bestemmio. Un po’ di più.

Al trentacinquesimo tornante gli alberi non ci sono più, c’è dell’erbetta sparuta, qualche marmotta, credo, un silenzio che snerva, interrotto solo dal mio fiatone, inspirare, espirare. Incrocio alcune macchine che scendono dalla cima e sento delle zaffate di plastica bruciata: è l’odore dei loro freni che si sciolgono sui dischi, giuro.
Non c’è neanche più il tempo per ritagliarsi una bestemmia tra un respiro e l’altro, e intanto la testa mi si piega di lato, un orecchio s’intoppa, cerco un rapporto più corto e più agile, ma la catena è già sull’ultimo, 39×23, se non mi ricordo male, che è il rapporto più leggero d’ordinanza per la mia categoria, non l’avevo cambiato prima di partire ed è una roba da matti, una roba impossibile.

Quando sali lo Stelvio non puoi permetterti di smettere di pedalare, devi salire e basta, e io sono delle ore che spingo, pedalata dopo pedalata, pedalata e colpo di tosse, pedalata, pedalata e pedalata; il sudore arriva sugli occhi e brucia, pedalata, pedalata, pedalata, bevo un sorso d’acqua della seconda borraccia e al quarantesimo tornante non c’è neanche più l’erbetta ai bordi della strada, i tornanti che rimangono ce li ho tutti lì, davanti agli occhi, e mi sento male. Sono lì, da solo, non penso più a niente, e mi sento male.
Finisce anche la seconda borraccia, tocca andar su senz’acqua.

Al quarantacinquesimo tornante ne mancano solo tre, abbozzo un sorriso, sto andando agli otto, nove chilometri l’ora, forse anche sette, da ore, da sempre. Adesso provo ad accompagnare ogni pedalata con un dondolìo della schiena, con una postura scompostissima, ma la testa guarda avanti, alla cima. Diobello, dài. Dài che ci siamo.

È al quarantasettesimo tornante che sento delle voci che chiacchierano amabilmente alle mie spalle, ed è al quarantottesimo tornante, l’ultimo, che quelle voci mi sorpassano allegre: sono Bartoli e un suo compagno di squadra che si allenano. Sembra che stiano facendo il cavalcavia di Rolo (Reggio Emilia) che passa sopra la A22 e non mi guardano neanche. Li mando a cagare col poco pensiero che mi rimane, tanto sono arrivato, non scendo neanche dalla bici e mi appoggio con una mano al palo del cartello con su scritto Passo dello Stelvio.
E sto fermo lì.

Sto fermo lì per dieci minuti, senza dire niente, senza pensare a niente, guardo solo un po’ la neve del ghiacciaio, con la testa vuota, solo il fiatone che pian piano rallenta. E intanto sento Bartoli che dice al suo amico: «Adesso andiamo giù dall’altra parte e torniamo su, ti va? Dopo pranziamo».
In quel momento preciso, lì, attaccato con una mano al palo del cartello con su scritto Passo dello Stelvio, con i piedi ancora agganciati ai pedali, con la testa piegata e la maglia bagnata fradicia, ai bordi del ghiacciaio, mentre arriva il furgone guidato da mio nonno con mio padre seduto di fianco, chiudo gli occhi e mi vedo da fuori, in terza persona. Ed è lì che capisco che forse, quel ragazzo di sedici anni stremato sulla bici e attaccato con una mano al palo del cartello con su scritto Passo dello Stelvio, forse, non è detto, ma secondo me lui, nella vita, dovrebbe cominciare a fare delle altre cose.

***

E vi avevo promesso la risposta alla domanda fondamentale sulla vita, l’universo e tutto quanto.
Adesso ve la dico: è 48.

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Nori (e Lacan)

E in un libro che si chiama Manuale pratico di giornalismo disinformatodel 2015, Paolo Nori dice che Jacques Lacan era uno che aveva modificato la psicanalisi, o la psicologia, nel senso che il matto, dopo il lavoro di Lacan, non era più quello che si metteva lo scolapasta in testa ed era convinto di essere Napoleone, il matto era Napoleone che era convinto di essere Napoleone.


(Che è una cosa che posto tutti gli anni, il 5 maggio, quando mi ricordo. Ieri, tra l’altro, ho finito di rileggere Delitto e castigo, in una bellissima traduzione di Damiano Rebecchini, e questa frase qua, oggi, mi spacca un po’ la testa.)


Hobsbawm (e un’altra cosa che parla di cappelletti)

E in un saggio intitolato Il Primo maggio: nascita di una ricorrenza, del 1990, dentro a un libro che si chiama Gente non comunedel 1998 o del 2000, Eric John Ernest Hobsbawm dice che i socialisti italiani, vivamente consapevoli del fascino spontaneo della nuova Festa del lavoro agli occhi di una popolazione in gran parte cattolica e analfabeta, usarono l’espressione «Pasqua dei lavoratori» almeno a partire dal 1892, e che simili analogie diventarono correnti in campo internazionale dalla seconda metà degli anni Novanta (dell’Ottocento). E dice che è facile capirne il motivo. E che la somiglianza del nuovo movimento socialista con un movimento religioso e perfino, nei primi anni eroici della Festa del Lavoro, con un movimento di rinascita religiosa a tinte messianiche, era evidente. E per certi versi, uguale era la somiglianza dei leader, attivisti e propagandisti di quel movimento con una gerarchia ecclesiastica, o almeno con un ordine missionario. E dice anche di possedere uno straordinario volantino del 1898 proveniente da Charleroi, in Belgio, riproducente quella che può essere definita una predica da Primo maggio; nessun’altra etichetta sarebbe adeguata. Fu stilato dai, o a nome dei, dieci deputati e senatori del Parti Ouvrier Belge – atei dal primo all’ultimo, senza dubbio – sotto il duplice motto «Lavoratori di tutto il mondo unitevi (Karl Marx)» e «amatevi gli uni con gli altri (Gesù)». Qualche citazione dà un’idea del contenuto:

È questo il tempo primaverile e festivo in cui la perpetua evoluzione della natura rifulge in tutta la sua gloria. Come la natura, riempitevi di speranza e preparatevi a una Nuova Vita.

Dopo qualche riga di raccomandazioni morali («Abbiate rispetto di voi stessi: guardatevi dalle bevande che ubriacano e dalle passioni degradanti», e così via) e buoni propositi socialisti, la predica si concludeva con un brano di sapore millenaristico:

Presto le frontiere si dissolveranno! Presto finirà il tempo di guerre ed eserciti! Ogni volta che praticherete le virtù socialiste della Solidarietà e dell’Amore, farete sì che questo futuro sia più vicino. E allora, nella pace e nella gioia, verrà un mondo in cui il socialismo trionferà, una volta compreso il dovere sociale di tutti di favorire il pieno sviluppo personale di ciascuno.

E poi, alla fine, Eric John Ernest Hobsbawm dice che, diversamente da altre ricorrenze, comprese molte manifestazioni più o meno ritualizzate del movimento operaio tenutesi in precedenza, il Primo maggio non commemorava niente, almeno al di fuori dell’influsso anarchico che mirava a collegarlo all’episodio degli anarchici di Chicago del 1886. Non verteva su niente fuorché sul futuro, che, al contrario di un passato che niente aveva avuto in serbo per il proletariato se non tristi esperienze («Du passé faisons table rase» cantava non per caso l’Internazionale), prometteva l’emancipazione. Inoltre «il movimento» non offriva, come invece la religione, ricompense dopo la morte, ma una Nuova Gerusalemme su questa Terra.

***

Adesso, invece, parliamo di cappelletti. Potrei dire di tortellini, ma qui, in questa parte della provincia di Modena al confine con quella di Reggio Emilia, e in tutta la provincia di Reggio Emilia, si chiamano cappelletti. Potrei dire che i tortellini sono la stessa cosa con un altro nome, ma non sono mai stato sicuro che fosse vero, non lo sono neanche adesso, quindi non lo dico. Portate pazienza.

Ma comunque, i cappelletti, da queste parti, di solito li mangiamo nei giorni di festa. Magari adesso li mangiamo anche nei giorni feriali, soprattutto quando in casa c’è ancora una nonna che fa una sfoglia da venticinque uova e per finire tutti i cappelletti che ne vengon fuori ci si mette qualche mese, ma insomma, una volta, quando c’era la povertà, i cappelletti li mangiavano solo nei giorni di festa, cioè per Natale, per Pasqua e, per esempio, il Primo maggio.
Nel ventennio, però, il fascismo lo aveva abolito, il Primo maggio, e da queste parti, tra le province di Modena e Reggio Emilia, come raccontava sempre mio nonno Corrado, giravano delle squadre che all’ora di pranzo irrompevano nelle case per vedere se qualcuno stava mangiando i cappelletti. Quando trovavano una famiglia che li mangiava, i fascisti sbaraccavano la tavola e spesso e volentieri picchiavano e bastonavano i malcapitati.
Gli emiliani antifascisti, durante il fascismo, il Primo maggio si erano abituati a mangiare i cappelletti di nascosto.

Per degli anni, io e Grushenka, e anche il Miny, da quando c’è, il Primo maggio andavamo a Correggio, in provincia di Reggio Emilia, dove era costume mettere delle gran tavolate sotto ai portici della piazza e tutti insieme fare una bella mangiata di cappelletti. Una volta si chiamavano proprio “i cappelletti antifascisti”, e dopo, con l’aria di moderazione che c’era in giro qualche anno fa, li avevano ribattezzati socialdemocraticamente “i cappelletti scendono in piazza” o “cappelletti in piazza” e basta.
Poi era arrivato il coronavirus, così avevamo cominciato a comprare i cappelletti in gastronomia e il cappone per il brodo in macelleria, per mangiarli in casa nostra, oppure andavamo a mangiare quelli di mia mamma, che sono molto buoni, e, insomma, facevamo quello che si poteva in quel preciso momento storico. Anche se non dovevamo più nasconderci, per fortuna.

Oggi invece torniamo a Correggio. Siamo molto emozionati, anche se minaccia pioggia e hanno spostato le tavolate al chiuso, dove di solito fanno la Festa de l’Unità. Ma va bene lo stesso.
Per quelli come noi per cui il 25 aprile è un po’ il nostro Natale, mi vien da dire che il Primo maggio sia come il Capodanno.

Quindi buon Primo maggio.
E, come dire, buon anno.

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