Hašek (3)

E nella seconda parte, intitolata Al fronte, di un libro che si chiama Il buon soldato Sc’vèik, del 1921, ambientato in Cecoslovacchia, nell’Impero austro-ungarico, durante la Prima Guerra Mondiale, Jaroslav Hašek fa dire con tono sentenzioso a un appuntato della gendarmeria boema che:

«C’è troppa gente al mondo, [….] ormai ci pigiamo l’uno con l’altro, e l’umanità s’è propagata in modo spaventoso.»

Ai tempi della Prima Guerra Mondiale, la popolazione mondiale stimata era poco più di un miliardo e mezzo; poco meno di due miliardi negli anni venti nel Novecento*.


2 agosto 1952, 2 agosto 1980, 2 agosto 1998

Quando arrivava il 2 di agosto, mio nonno, Corrado, diceva sempre che il 2 di agosto del 1952 era notte e…

… ero andato in bicicletta a casa dell’Ada, l’avevo caricata sulla canna e via, ci eravamo sposati che era già incinta… l’avevo presa sulla canna della bicicletta e lei, che era la più povera del paese, aveva una scatola da scarpe come dote… ma non era mica piena, la dote era proprio la scatola da scarpe, pensa te com’era povera… però era d’un bella, l’Ada, e l’avevamo chiamata a lavorare in campagna da noi che non sapeva fare niente, e quando c’era da spostare il fieno se lo ribaltava sempre tutto addosso che io e mio padre facevamo di quelle ridute che cascavamo per terra.

E oggi sarebbero stati 71 anni di matrimonio, se l’Ada e Corrado fossero ancora al mondo.
Mi mancano moltissimo. Così va la vita.

Invece, del 2 di agosto del 1980, Grushenka dice sempre che…

… la puntualità non è una dote innata. C’entra coi comportamenti abituali, con quelle cose che inizi a fare in un certo modo e che poi rimangono così. O sei sempre stato puntuale o non lo sei mai stato. Ma dipende, son cose che hanno un inizio, non sono innate. Io non sono puntuale e neanche i miei genitori sono mai stati puntuali.
Mia madre l’indomani voleva prendere il treno, s’era fissata con questa idea, diceva a mio padre dai Imbeni, domani ci svegliamo presto e prendiamo quello delle nove, che ci vuole. Poi però si sono svegliati tardi, mia madre ci metteva un sacco di tempo a prepararsi, è una che ci ha sempre messo molto tempo. Mio padre si prepara una moka di caffè mentre mia madre sbuffa in bagno e le dice vabbè dai, ci andiamo in macchina pian pianino. Dice sempre pian pianino, mio padre, non è mai stato un tipo puntuale. A Bologna dovevano trovare un libro, un testo universitario. Mia madre si era riscritta all’università di Modena ma si vede che a Modena quel libro non l’aveva trovato. Mi ha ripetuto spesso che le ho dato io la forza di finire l’università, che quando è rimasta incinta ha deciso di riprendere gli studi e di laurearsi. Era incinta di sette mesi, io sarei dovuta nascere in ottobre, anche se poi son nata a metà novembre, in ritardo. Arrivati a Bologna erano in un bar del centro a fare colazione quando è iniziato un via vai di gente concitata, è scoppiata una caldaia alla stazione, diceva qualcuno entrando, è terribile, ci son dei morti, poi telefonavano e uscivano e intorno l’agitazione aumentava. Una caldaia in agosto? pensava mio padre e ha preso mia madre e son risaliti sulla macchina ma verso la stazione deviavano il traffico, non facevano avvicinare nessuno, accidenti, è qualcosa di grosso, pensavano spaventati. Allora hanno preso la via Emilia, e pian pianino siamo tornati tutti a casa.

E così, quel giorno là, quella che trentaquattro anni dopo sarebbe diventata la mamma di mio figlio aveva perso un treno. Per fortuna.

E poi, per finire, il 2 di agosto del 1998…

… avevo 19 anni, io e i miei amici ci eravamo appena diplomati e dovevamo passare quella meravigliosa estate di nulla totale che ci separava dall’università e dal lavoro a vita. Avevamo pensato di farci un interrail di ventidue giorni in Francia, Belgio e Olanda.
Avevo fatto di tutto perché il 2 di agosto fossimo a Parigi, e nessuno capiva il perché, ma appena eravamo scesi dal treno avevamo preso la metro ed eravamo arrivati sugli Champs-Élysées. Spuntati in superficie, mi ricordo che mi ero messo a correre, avevo tirato fuori dallo zaino una bandiera tricolore e mi ero diretto senza pensare verso le transenne, zampettando come un matto. Stava arrivando il Tour de France, e tra la lunga fila di corridori ce n’era uno con la maglia e il pizzetto gialli.
Non credo di aver pianto come quella volta davanti alla televisione mentre guardavo l’arrivo sull’Alpe d’Huez, nel 1995. Però era stata lo stesso una bella botta di gioia.
Non è che capiti a tutti di vedere un Dio dal vivo. Non avevo mai visto dal vivo né Maradona né Michael Jordan. Ma Pantani sì. Era lì, a qualche metro da me, bellissimo, lo potevo quasi toccare.

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:(

Tutti i martedì sono uguali, ma alcuni martedì sono più uguali degli altri: </ferie>


Majakóvskij

E in un poema che si intitola Uomo, del 1918, che si trova anche dentro a un libro che si chiama Poemidel 1963, Vladímir Vladímirovič Majakóvskij si domanda chi abbia ordinato ai giorni di luglieggiare.

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Wu Ming 1 e Santachiara (e Calvino, Pavone e Revelli)

E in un libro che si chiama Point Lenana, del 2013, Wu Ming 1 e Roberto Santachiara dicono che in quelle settimane di sbandamento, per dirla con il partigiano Kim in Il sentiero dei nidi di ragno di Italo Calvino, bastava «un nulla, un passo falso, un impennamento dell’anima, e ci si trovava dall’altra parte». E che «questo nulla», come aveva scritto lo storico Claudio Pavone, era «capace di generare un abisso». E che poteva trattarsi di «un incontro casuale con la persona giusta o con la persona sbagliata; e poteva ricollegarsi al modo in cui si erano vissute le giornate seguite al 25 luglio 1943», cioè alla caduta di Mussolini. E che in quei giorni Nuto Revelli era un tenente degli alpini appena tornato dalla Russia, ma era già un partigiano quando, il 12 ottobre 1943, scrisse sul suo diario: «Al 26 luglio si poteva anche scegliere sbagliato. Se mi picchiavano, se mi sputavano addosso, forse sarei passato dall’altra parte, con i fascisti, con le vittime del momento. Oggi sarei con le canaglie, con i barabba, con le spie dei tedeschi.»


(Anche questa, al solito, è una cosa che posto tutti gli anni, quando mi ricordo, il 25 di luglio.)


:)

<ferie>


7 luglio

Dieci anni fa, avevo appena 34 anni, ero con mio nonno, Corrado, fuori da un bar dove i miei genitori avevano organizzato un piccolo rinfresco per festeggiare la laurea in Scienze dell’Educazione di mia sorella, all’Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, nella sede di Reggio Emilia; mentre eravamo lì, io e mio nonno Corrado, che parlavamo del più e del meno, a un certo punto lui si era fatto un po’ pensieroso e mi aveva detto: «Oh, Marco, questa è la piazza dove hanno ammazzato quei manifestanti.»
«Sì, nel 1960,» gli avevo subito risposto io, prendendo l’occasione al volo, che mi piaceva sempre molto quando mio nonno cominciava a parlare delle sue cose passate, del PCI, delle manifestazioni, degli scioperi, eccetera, e dovevo aver anche provato a canticchiare il ritornello dei Morti di Reggio Emilia, così, per darmi un tono.
Lui aveva annuito, aveva alzato un braccio e aveva indicato un punto preciso della piazza.
«Io ero là,» mi aveva detto, «eravamo in fondo al corteo perché noi che venivamo dai paesi più lontani eravamo sempre gli ultimi. Non mi ricordo se ho sentito le schioppettate, ma mi ricordo che a un certo punto si son messi tutti a correre verso di noi, scappavano via.»

Delle volte coi nonni funziona così, quando invecchiano, che si ricordano le cose solo quando c’è qualcosa che gli accende una lampadina in testa che magari era spenta da un bel po’, perché che fosse stato lì il giorno della strage, mio nonno, Corrado, non me l’aveva mica mai detto.
Allora mi ero messo a fare un rapido calcolo: lui era del ’25, era nato in dicembre, i morti di Reggio Emilia erano del 7 luglio del 1960; quindi quel giorno là doveva avere appena 34 anni.
E mentre deglutivo e mi veniva la pelle d’oca, anche se era un giorno abbastanza caldo, mio nonno, Corrado, era già rientrato nel bar, al rinfresco della laurea di mia sorella in Scienze dell’Educazione all’Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, nella sede di Reggio Emilia, per provare a mangiare un pasticcino o due in più, anche se gli avevano detto di limitarsi coi dolci per via del diabete, della pressione e di tutto il resto.
Ma era fatto così, mio nonno Corrado, era sempre stato un gran goloso.

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Questa è la Tregua? (un discorso)

[E questo è all’incirca il discorso che ho fatto domenica sera durante la serata finale dell’AiaFolkFestival 2023 nel Parco della Resistenza di Novi di Modena. Dopo di me hanno suonato Eugenio Finardi, Mirko Signorile e Raffaele Casarano, e mentre scendevo dal palco, per la scaletta che portava dietro le quinte, e loro salivano, mi han fatto i complimenti. A momenti cadevo giù. Buona lettura.]

Buonasera,
Si sente se parlo così?
Bene.

Allora, ciao, io mi chiamo Marco Manicardi, e sono un novese. O meglio: lo sono stato per i primi 26 anni della mia vita, dopo sono andato ad abitare a Carpi per questioni d’amore. Abito lì da 18 anni e sono 18 anni che la mia compagna mi dice che secondo lei mi ha tolto il selvatico. Chissà se ha ragione.

Ma comunque, alcuni di voi mi conoscono perché siamo cresciuti insieme, altri perché sono il figlio di Jules e della Francesca o perché sono il nipote di Corrado e dell’Ada; altri ancora, forse, mi conoscono perché ormai mi capita da un po’ di anni di dire delle cose all’AiaFolkFestival di Novi di Modena. Di solito funziona così: sul finire della primavera, verso l’ora di pranzo di un giorno lavorativo, quando le difese sono un po’ basse e sto magari preparando da mangiare per mio figlio che torna a casa da scuola, suona il telefono. Prima era la Giulia Contri, a telefonare, adesso è Diego Zanotti. Mi chiamano e mi chiedono, senza giri di parole, se mi va di dire qualcosa in una serata come questa dell’AiaFolkFestival, e io, tutte le volte, vorrei dire che non lo so, che grazie ma non saprei cosa inventarmi, che non sono un professionista e che, insomma, mi dispiace ma quest’anno proprio non ci riesco…
E invece poi, alla fine, dico di sì.
Si fa un po’ fatica a dire di no quando ti chiamano in rappresentanza del Coro delle Mondine di Novi di Modena, o almeno io faccio fatica. Devo avere ancora addosso un po’ di selvatico.
E quindi, niente, eccomi qua anche stasera. All’AiaFolkFestival 2023.
Mi han fregato un’altra volta.

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2 luglio: un “reading sulla pace” all’AiaFolkFestival

E domenica 2 luglio, cioè tra qualche giorno, al Parco della Resistenza di Novi di Modena, cioè il mio natìo borgo selvaggio, c’è la serata finale dell’AiaFolkFestival, un festival bellissimo organizzato tutti gli anni dal Coro delle Mondine di Novi di Modena e da altra bravissima gente del posto. Ed è un po’ che mi chiamano tutti gli anni a dire delle cose, all’AiaFolkFestival di Novi di Modena, e anche quest’anno mi hanno telefonato e mi hanno detto che il tema del festival è “la pace” e mi hanno chiesto se potevo fare “un reading sulla pace”. Io quando mi chiedono queste cose sono sempre un po’ in imbarazzo, e mi sembra sempre di essere un impostore, ma insomma, ai novesi e al Coro delle Mondine di Novi di Modena non riesco a dire di no, quindi succede questa cosa che domenica 2 luglio, più o meno alle 21:00, faccio un “reading sulla pace” cui non ho ancora dato un titolo. Se me ne viene uno nei prossimi giorni lo scrivo, altrimenti lo dico direttamente sul palco domenica sera.

La cosa che mi fa tremare smodatamente l’orlo delle mutande, però, è un’altra, e cioè che dopo di me, dalle 21:30, sullo stesso palco, suoneranno Eugenio Finardi con Raffaele Casarano e Mirko Signorile nell’EUPHONIA Suite Tour 2023, e quindi è come se io aprissi il loro concerto, che è una cosa che, l’ho già detto prima, mi fa tremare l’orlo delle mutande e un po’ mi spacca anche la testa.

Comunque, se venite, e anche se il mio “reading sulla pace” sarà una cosa tutto sommato così così, poi dopo ci sarà Eugenio Finardi quindi la serata in un certo qual modo sarà salva.
Non so come funzioni l’Euphonia Suite Tour, ma se fanno anche qualche pezzo storico, magari nei bis, tipo Scimmia o Giai Phong, ecco, forse piangerò come una vite tagliata. Speriamo, dai.
Ciao.

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Trentasei anni fa

Era il 7 giugno del 1987, avevo otto anni e dormivo dai nonni insieme a mio papà. Erano le quattro o le cinque del mattino, mi ero svegliato perché c’era del trambusto che veniva dal piano di sotto, ero sceso dal letto, mi ero infilato le ciabattine e affacciandomi alle scale avevo visto mio papà che era già vestito per uscire, stava prendendo le chiavi della macchina.
«Papà, posso venire anch’io?» Gli avevo chiesto.
«No,» aveva risposto mio papà, «devi andare a scuola, torna a letto.»
Qualche ora dopo ero in classe, in seconda elementare, erano gli ultimi giorni poi sarebbero iniziate le vacanze. Avevo aspettato che la maestra finisse di fare l’appello, poi avevo alzato la mano.
«Marco, cosa c’è?» Aveva chiesto la maestra.
«Devo dire una cosa,» Avevo risposto.
«Va bene, dilla pure.»
«Stanotte è nata mia sorella.»
E tutta la classe, mi ricordo, si era messa ad applaudire.

Dopo, al pomeriggio, mio papà era tornato a casa, aveva mangiato qualcosa, mi aveva caricato in macchina e mi aveva portato all’ospedale di Carpi. C’era da attraversare un corridoio che mi ricordo molto lungo, poi si entrava in una stanza divisa a metà da un vetro. Dall’altra parte del vetro c’erano due o tre incubatrici con dentro dei bambini molto ma molto piccoli. Io arrivavo a vederli solo in punta di piedi, col naso appiccicato al vetro, e mentre ero lì che guardavo senza saper bene come stare e cosa fare, mio papà con un dito mi aveva indicato una delle incubatrici.
«È quella lì.»

Allora non avevo ben capito il perché fossero tutti così agitati e pieni d’ansia, invece adesso, che sono papà anch’io, quando ci ripenso mi viene un po’ il magone. Mia sorella era un cosino piccolino, tutto scuro, quasi viola, rannicchiato a occhi chiusi dentro una teca di vetro. Era nata prima del previsto, un po’ troppo per poter essere fuori pericolo, e per qualche settimana andavamo là tutte le sere per vedere se tutto procedeva come doveva procedere. Cioè andavamo a vedere se era ancora viva.

E adesso mia sorella compie trentasei anni.
Io ne ho quarantaquattro e pian piano va a finire che diventiamo coetanei.
Ci penso e mi viene da dire solo una cosa banalissima, ma che comunque è abbastanza vera e quindi la dico lo stesso: «vacca d’un cane, come passa il tempo.»

Auguri, sorellina.
Avanti così.

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